Vivian Maier. La tata fotografa
La Fondazione Puglisi Cosentino di Catania con l’organizzazione del Gruppo Arthemisia ospita dal 27 ottobre e fino al 18 febbraio una retrospettiva fotografica di una delle più interessanti fotografe del ‘900 americano: Vivian Maier.
di Franco Sondrio

Vivian Maier – Autoritratto
ArteVitae, già lo scorso anno, si era occupata di una mostra della stessa fotografa. L’allestimento era quello dell’Arengario di Monza con l’organizzazione di ViDi ; oggi si ritorna sull’argomento visto il crescente interesse intorno alla grande fotografa americana, fino a qualche anno fa praticamente sconosciuta.
L’attuale location espositiva è quella del prestigioso Palazzo Valle (CT), perla del barocco siciliano di Giovanbattista Vaccarini, autore di numerosi progetti in città. Il recente restauro del palazzo contrappone la ricchezza decorativa degli esterni alla sobrietà minimalista degli interni, così come si conviene ad un luogo destinato ad ospitare esposizioni temporanee.

Catania. Palazzo Valle
Vorrei raccontarvi l’impatto con questa mostra che ha certamente superato ogni mia precedente aspettativa. Sono solito frequentare le mostre delle star della fotografia ma, questa volta, ho avuto la sensazione di dover procedere in punta di piedi e col dovuto rispetto del privato di una donna che si racconta, come in un diario segreto, attraverso le sue fotografie intese come specchio dell’anima e al tempo stesso riflesso del quotidiano.
Sulla parete di una sala campeggia una citazione della Maier:
“ Dobbiamo lasciare spazio a coloro che verranno dopo di noi. é una ruota: si sale e si arriva fino alla fine, poi qualcuno prende il tuo posto e qualcun altro ancora il posto di chi lo ha preceduto e così via. Non c’è niente di nuovo sotto il sole”
Vivian Maier
Una riflessione lucida e consapevole sulla fugacità della vita che, tra le righe, ci fa comprendere il senso della sua opera. Migliaia di scatti, prodotti in maniera compulsiva e quasi sempre non sviluppati, come a voler trattenere per se – e solo per se – i frammenti di una realtà effimera.
Vivian non sembra interessata alla sviluppo delle sue foto. Per lei il momento clou, quasi sublime, è quello dello scatto. Sa di aver comunque “eternato” attimi di vita… e questo sembra bastarle. La parola d’ordine è “custodire gelosamente”, impresse in un rullino, scene che non torneranno più.
La vita della Maier, tata di professione, s’intreccia con la sua passione più grande : fotografare e soprattutto fotografare per se stessa; ed è questo che rende davvero uniche le sue opere. Nessuna pretesa di perfezionismo, nessuna formazione specifica e sopratutto la volontà di rimaner fuori da una qualunque rete di relazioni professionali.
2007. Trecentottanta miseri dollari, questa la cifra pagata da John Maloof, figlio di un rigattiere, per acquistare all’asta il contenuto di un box, contenente i più disparati oggetti di una donna che aveva smesso di pagare l’affitto di casa. Tra le altre cose emerse una cassa piena di negativi e rullini non ancora sviluppati. Ed è da qui che s’impone prepotentemente sulla scena internazionale la seconda vita di Vivian Maier fino a quel momento sconosciuta al mondo intero.
Ciò che emerge oltre le foto è una sofisticata antesignana della fotografia di strada, con un talento commisurato – per dirla con un gioco di parole – al suo vedere e al suo sentire senza farsi né vedere né sentire.
In mostra ben 120 fotografie in bianco e nero e 30 a colori, scattate con una macchina fotografica Rolleiflex e un apparecchio Leica IIIc. tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento tra New York, Chicago e Los Angeles. In più una serie di filmati in super8 realizzati dalla stessa Maier. Di questi ultimi colpisce la mancanza di mano ferma nelle riprese e i repentini movimenti in direzioni diverse, sollecitati dalla sua implacabile curiosità e voglia di esser dentro a quel che vede.
Complessivamente, il corpus di opere in mostra offre uno spaccato della società americana dell’epoca. Strade e marciapiedi diventano un vero e proprio palcoscenico dove si alternano miserabili, donne dell’alta borghesia, bambini e anziani, gruppi di persone ripresi in momenti fugaci.
Tranne qualche eccezione (Chicago) i luoghi risultano anonimi, non sono quelli che nell’immaginario collettivo si ricollegano alle vedute di riferimento delle grandi metropoli americane vissute dalla Maier, che nei suoi intenti non ha certo quello di mostrare immagini simbolo.
Non trascurabili sono i suoi autoritratti, spesso realizzati come riflessi su vetrine e specchi, o come lunghe ombre incombenti del suo corpo; anche in questo caso antesignana ma delle moderne selfie.

Autoritratti
La qualità delle foto è altissima, sia per i soggetti ripresi che per l’interpretazione del bianco e soprattutto del nero spesso reso in modo particolarmente incisivo. La parentesi del colore offre particolari suggestioni che suggeriscono la voglia di sperimentare e restituire con più leggerezza la vita urbana americana.
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“ Vivian Maier è un caso estremo di riscoperta postuma: ciò che visse coincise esattamente con ciò che vide. Non solo era sconosciuta in ambito fotografico ma sembra addirittura che nessuno l’abbia mai vista scattare fotografie. Può sembrare triste e forse anche crudele – una conseguenza del fatto che non si sposò, non ebbe figli e apparentemente nessun amico – ma la sua vicenda rivela anche molto su quanto sia grande il potenziale nascosto di tanti esseri umani. Come scrive Wisława Szymborska nel poema Census a proposito di Omero, “Nessuno sa cosa faccia nel tempo libero ”.
Geoff Dyer
Note biografiche sull’autore
Franco Sondrio nasce a Messina nel 1963 dove attualmente vive svolgendo la sua attività lavorativa a Catania. Compie gli studi superiori nella città dello Stretto, per poi laurearsi in Architettura presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Successivamente, consegue il titolo di Dottore di Ricerca presso la Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Messina sviluppando una tesi su “La rappresentazione del paesaggio nelle opere di Antonello da Messina”. Ha svolto attività didattica presso la Facoltà di Architettura di R.C. ed è stato correlatore di numerose tesi di laurea negli ambiti del Restauro e della Storia dell’Architettura. É autore di saggi e articoli su libri e riviste scientifiche e, a tutt’oggi continua la sua attività di ricerca, con particolare riferimenti al corpus pittorico antonelliano, agli apparati prospettici quattrocenteschi, agli sviluppi artistici e architettonici di Messina a partire dall’epoca rinascimentale.
Ho visto la mostra e sono restato affascinato per la capacità di questa fotografa di raccontare la città e la vita dei suoi abitanti senza compiacimento per il pittoresco o le curiosità scontate. Ne deriva una realtà pulita e sincera scandita sui tempi della riflessione dell’occhio fotografico. La bella recensione di Franco Sondrio ci apre la capacità di dare un equilibrato e forte contributo all’interpretazione di una fotografa che tendeva al sacrificio estremo, quello di non rendere palese l’immagine latente impressa su un negativo che non viene sviluppato. Il contrario di quanto pratica ogni aspirante fotografo. Con l’aggravante di aver fatto foto bellissime scoperte quasi per caso. La complessità del racconto della Maier sta anche nei tre mezzi utilizzati: il bianco e nero del formato quadrato della Rollei, il colore del rettangolo 35 mm della Leica e il filmato Super 8. Tre mondi che richiedono approcci diversi, ma nel nostro caso tutti felici… Il miracolo sul quale la recensione ci induce a riflettere è quello di un grande patrimonio iconografico che ci sconvolge per la serenità di chi usava il mezzo fotografico per raccontare il suo intorno senza aspirare a gratificazioni esteriori. Dobbiamo interrogarci su che fare: artisti per caso o osservatori clandestini ? La risposta potrebbe stare nella presa di coscienza di un impegno culturale e civile insito nell’uso di un mezzo così potenzialmente rivoluzionario
Ti ringrazio Massimo! Apprezzo la tua attenta riflessione