Rosso Istanbul, il nuovo film di Ferzan Özpetek
Rosso Istanbul, regia di Ferzan Özpetek, è un film in cui i protagonisti, come monadi impazzite, interagiscono nascondendosi allo spettatore, al quale non rimane che cercare di mettere insieme tutti i pezzi, o almeno quelli che riesce a trovare.
di Daniela Luisa Bonalume
Quando vieni convocato per lavoro, tu ti aspetti un lavoro. E questo si aspettava Ohran lo scrittore oramai londinese, silente e lontano da troppo tempo. Rosso Istanbul inizia con un rimpatrio ed un’accoglienza anomala. Educazione formale nelle parole ma violenza emotiva nei silenzi.
Non sono molti i personaggi attorno ai quali gira questa storia. Quattro, se escludiamo il parentado, la servitù – che non è ininfluente – ed il perfido di rito. Intrigante nelle prime scene, Rosso Istanbul diventa lentamente intrigato. L’individuazione dei ruoli durante lo svolgimento della trama fatica ad arrivare. Non è mai chiaro chi fa cosa e come mai sia lì. L’unica cosa chiara è che non sarà facile fare chiarezza. I personaggi si oscurano grazie a lunghi primi piani, sguardi eloquenti – od intenzionalmente tali – e tanti, tanti ed estesi silenzi.
In Rosso Istanbul sono pochissimi gli elementi atti a far sì che lo spettatore caschi nel pozzo della trama, tutto rimane in superficie. Esattamente come una fitta e viscida ragnatela nella quale non ci si invischia ma si scivola. Perché? Non esiste un inganno. Non esiste un gancio. Non esiste un picco emotivo che faccia precipitare nel cuore della storia. Tutto viene rappresentato come se fosse lo scioglimento del nodo scorsoio attorno ad un collo, si sa che se non verrà sciolto, col passare del tempo, l’epilogo sarà scontato. Tuttavia, le dita che dovrebbero febbrilmente procedere nell’allentamento del cappio, sono artritiche. Si muovono a scatti, non sono prensili e, soprattutto, non allontanano di un millimetro i due lembi. Insomma: non se ne esce.
In Rosso Istanbul l’evento “deus ex machina” non diventa “machina” in quanto non è chiaro l’evento stesso. Tuttavia viene solleticata la curiosità di vedere come si risolverà l’intrigo. Ottima scusa per alimentare la speranza di una sceneggiatura meno criptica e più godibile, e questo potrebbe essere il collante applicato alle poltrone del cinematografo per trattenere lo spettatore. I quattro personaggi misteriosi non riescono a rendere il mistero. L’unico coup de theatre investe parzialmente il protagonista principale, che è appunto Ohran lo scrittore.
E’ tutto abbastanza prevedibile anche se non se ne conosce il motivo. Il Bosforo, comparsa coprotagonista, viene chiamato in causa più volte senza avere mai un ruolo geograficamente rilevante, si limita a rappresentare un terreno di sfida, come potrebbe essere una cammellata nel deserto. La progressiva rivelazione delle quattro personalità non favorisce il rinvenimento della chiave di lettura del film. Il regista di Rosso Istanbul, questa volta, non ha permesso allo spettatore di vivere e masticare la sua storia, ma solo di analizzarla.
Seguire la sceneggiatura è davvero impegnativo e faticoso individuarne il filo conduttore, anche perché un filo conduttore ci deve pur essere. I personaggi che coronano i “Fantastici quattro” non sono complementari alla storia ma sembrano tasselli di dimensioni regolabili infilati nella trama per tappare i buchi dell’ordito, affinché l’aspetto del tessuto risulti almeno completo anche se non compatto. Il motivo professionale per cui Ohran ritorna ad Istanbul, e che dovrebbe rappresentare il cuore del film, perde la sua centralità quasi subito.
Le citazioni che ne vengono fatte sono così rare, approssimative e distanziate tra loro da favorirne la dimenticanza. Si intuiscono rilevanti drammi umani, offerti a macchia di leopardo, ma non se ne percepisce la natura. Gli elementi disponibili sono minimi, storie di amicizia onorate o tradite, forse di amori omosessuali mai consumati. A questo proposito, l’epilogo di Rosso Istanbul, potrebbe rivelare che era già tutto previsto dal mattatore, che non è Ohran.
Si ripercorre quindi velocemente nella mente il film dall’inizio, ed allora si ritorna alla motivazione del rimpatrio di Ohran. Un po’ come in quei film gialli nei quali si vede subito il morto ed i potenziali colpevoli, per poi scoprire che il morto non era morto. Ed è qui che sta la soluzione dell’intrigo? Non si direbbe. Il colore rosso, nel titolo, ci sta benissimo, ma andrebbe tradotto in francese. La soluzione dell’intrigo sta nel trovare il fil rouge che lega la vita dei quattro personaggi.
Trailer del film
Note biografiche sull’autrice
Daniela Luisa Bonalume è nata a Monza nel 1959. Fin da piccola disegna e dipinge. Consegue la maturità artistica e frequenta un Corso Universitario di Storia dell’Arte. Per anni pratica l’hobby della pittura ad acquerello. Dal 2011 ha scelto di percorrere anche il sentiero della scrittura di racconti e testi teatrali tendenzialmente “tragicomironici”. Pubblicazioni nel 2011, 2012 e 2017.