25 Gennaio 2019 By Luca Tizzi

Marina Abramovic, artista serba stella della performing art.

Le Libere Divagazioni ci portano alla mostra appena conclusa di Marina Abramovic, una mostra non vista ma comunque recensita perché meno se ne sa e più se ne parla. Una breve impressione di Luca Tizzi sull’artista serba.

di Luca Tizzi

Bernardo di Chiaravalle ebbe a dire che le buone intenzioni lastricano le strade dell’inferno. Cosa c’entra questo direte, vi spiego. Avevo assicurato al redattore capo dei redattori capo di questo blog che sarei andato a vedere la mostra di Marina Abramović,, in Palazzo Strozzi a Firenze, e l’avrei recensita. Non ci sono riuscito.
L’idea mi è venuta all’ultimo momento quindi, un paio di settimane fa, sono andato a Firenze senza pensare di prenotare il biglietto convinto che sarei comunque riuscito ad entrare; non è stato così. La coda alla biglietteria era di quelle che avrebbero fatto invidia anche all’apertura di Starbuck a Milano. Per la cronaca la mostra in quattro mesi ha staccato circa 180.000 biglietti, su base annua un po’ come i visitatori della Galleria Borghese a Roma.

Durante la settimana successiva a questo mio fallimento ho tentato, senza troppa convinzione, di prenotare i biglietti per l’ultimo fine settimana della sua esposizione; per fortuna che non ero convinto altrimenti avrei avuto un’altra delusione, tutto esaurito. A quel punto mi sono messo a pensare a quale scusa avrei potuto trovare per giustificare la mia mancanza ma, non avendone trovate, ho deciso di non dire niente e scrivere lo stesso il pezzo, in fondo in Italia siamo tutti bravissimi a parlare, e a scrivere, di cose che non conosciamo.

Parliamoci chiaro, io sono disposto a stare in fila anche delle ore, come ho veramente fatto, per guardare da vicino  La Dama Con L’Ermellino di Leonardo da Vinci ma per l’artista serba NO, non me la sono sentita. Presunzione la mia? Forse si ma non mi importa, posso assicurarvi che per la prossima mostra in Palazzo Strozzi, dedicata questa volta al Verrocchio, sarà mia premura prenotare i biglietti o sopportare una lunga coda.

A questo punto, essendomi praticamente bruciato il pezzo, posso solo rimediare cercando di capire brevemente chi sia e cosa faccia Marina Abramovich quindi, forte della mia laurea all’università della strada, vi parlerò di cose che non conosco se non per sentito dire.

Nasce a Belgrado nel 1946, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e in quella Jugoslavia che passò proprio in quel periodo da Monarchia a Repubblica Socialista governata da Tito. Nipote di un Santo della chiesa ortodossa serba, figlia di un eroe nazionale, il padre Vojo, e di Danica, ufficiale dell’esercito Jugoslavo che, negli anni sessanta diverrà direttore del museo della rivoluzione e dell’arte di Belgrado. Un bel fardello da portarsi sulle spalle. Studia belle arti a Belgrado e poi le insegna a Novi Sad. A metà degli anni ’70 del XX secolo si trasferisce ad Amsterdam e inizierà una relazione, che durerà una decina di anni, con l’artista tedesco Ulay.

Difficile parlare delle opere di Marina perché opere non sono, quelle che espone sono “Performance” dove espone il proprio corpo agli spettatori donando gesti naturali oppure estremi, esplorando quel rapporto che si crea tra artista e pubblico  superando i limiti del corpo con la possibilità della mente.

La sua prima esposizione consiste di fatto nel “Gioco del coltello”, mano aperta sul tavolo e un coltello che si pianta tra le dita, ogni volta che si taglia cambia coltello fina a finire le venti lame a disposizione. La seconda la vede nuda su un tavolo a disposizione del pubblico, per sei ore non si sarebbe mossa subendo tutto quanto il pubblico le avrebbe fatto. La performance partì in sordina per poi degenerare verso la quarta ora quando qualcuno iniziò a ferirla e a lacerarle la pelle; quando si intuì che potesse essere stuprata il pubblico si divise in due fazioni, quelli che intendevano proteggerne  il corpo e altri che lo avrebbero martoriato.

Nel 1975, nella sua esecuzione chiamata Thomas Lips, dopo aver ingerito un chilo di miele ed essersi incisa con un rasoio una stella a cinque punte sul ventre, si sdraia su dei blocchi di ghiaccio disposti a forma di croce. Durante quell’esposizione il pubblico la toglie a forza da quella posizione evitandole il congelamento. Nel 1977 si mette nuda appoggiata allo stipite di una porta, il suo compagno Ulay di fronte, ed il pubblico costretto a passare tra i loro corpi sfiorandoli dovendo prima decidere come rivolgere il proprio corpo, se verso il lato maschile oppure quello femminile, obbligandoli ad indagare sulla loro sessualità.

Nel 2010 durante una performance a New York, durata 736 ore, rimane seduta immobile invitando il pubblico a sedersi davanti a lei. L’artista assorbe gli stati d’animo del pubblico e si emozionerà quando davanti a lei si siede il suo ex compagno, si erano lasciati trent’anni prima dopo una passeggiata di novanta giorni lungo la muraglia cinese.

Che si può dire della sua arte, che forse arte non è, il soggetto artistico non è la sua esposizione ma la reazione che  genera nel pubblico costretto a vivere in prima persona il dolore che l’artista si infligge o che le viene inflitto. Davanti ad un’opera d’arte statica l’emozione è data dalla luce, dal colore, dalle forme del dipinto o della scultura, ci coinvolge ma in maniera distaccata, quasi astratta. Marina non crea pitture o sculture, diventa lei stessa opera d’arte costringendo lo spettatore ad entrare in lei diventando parte di quell’opera, assorbendo il dolore, vivendo in prima persona le sensazioni di un corpo sopraffatto dalla violenza imposta o autoinflitta.

Fra qualche settimana andrò a vedere i dipinti del Verrocchio ma state certi che alla prossima manifestazione di Marina dormirò sul marciapiede pur di riuscire a vederla.  Nelle mie libere divagazioni si parla spesso di musica, pensando alla Abramovich si potrebbe ascoltare qualche brano di Goran Bregovic, ma io preferisco associarla a Zombie dei Cranberries, non chiedetemi il perché.

 

Note biografiche sull’autore

Florentini natione non moribus – Luca Tizzi nasce a Firenze nel 1961, la abbandona dopo 30 anni e si trasferisce nel paese di origine dei genitori, sull’Appennino Tosco-Romagnolo in provincia di Forlì-Cesena. Percorso di studi arruffato, bancario per motivazioni alimentari ma senza convinzione, si interessa di Cinema, Musica, Fotografia, Arte, Fumetti e molto altro. Gli piace scrivere anche se dice di non esserne capace, gli piace fotografare perché non sa disegnare, ma anche in questo dice di riuscire poco bene. Sogno nel cassetto, diventare ricco scrivendo cose orribili che leggono in molti. libere Divagazioni è la rubrica di intrattenimento da lui condotta, nella quale scrive di musica e canzoni, ma anche di arte e libri e molto altro, con la spiccata caratteristica che lo contraddistingue di saper ricercare l’aspetto meno noto, la curiosità più stuzzicante, per regalarvi delle chicche molto appetitose.

NB: Immagini e video inclusi in questo articolo sono stati reperiti in rete a puro titolo esplicativo e possono essere soggetti a copyright. L’intento di questo blog è solo didattico e informativo.