L’odore dell’Architettura
Quante volte un luogo ci ritorna in mente perché lo associamo a un odore? Ne esiste uno preciso, tipologico, legato ad alcuni edifici specifici? E quali sono le sue componenti, nel caso? È l’uso che se ne fa o sono i materiali? Il contenuto o il contenitore? E le persone che lo vivono, poi, faranno la loro parte? Insomma, in un pomeriggio in cui i troppi fatti di lavoro si accomodarono fatalmente in disparte, mi chiesi per la prima volta se esistesse davvero un odore dell’Architettura.
di Francesco Galletta
In un film abbastanza inquietante del 2006, Profumo – Storia di un assassino, il protagonista, Jean-Baptiste Grenouille, dotato di un olfatto talmente fuori dal comune da riuscire a riconoscere tutti i possibili odori, volendo ricreare l’essenza perfetta del profumo di donna sentita sulla pelle di una bellissima ragazza dai capelli rossi, accidentalmente morta per mano sua, decide di uccidere dodici altre giovani donne distillandone, per ognuna, il profumo.

fotogramma dal film Profumo – Storia di un assassino
Rammento che pensai inevitabilmente a quel film quando mi chiesi se potesse esistere un odore particolare per ogni architettura, ovvero, più realisticamente se io mantenessi una memoria olfattiva legata a questo o a quell’altro luogo. E, nel caso, se e come avessi potuto farmela tornare in mente. Ovviamente quella con il film fu solo un’associazione di idee e nulla più.
Senza arrivare alle nefaste conseguenze finali della storia (tutti quelli che il protagonista incrocerà moriranno per vari accidenti e lui stesso finirà mangiato per effetto del profumo che aveva creato), più semplicemente, alla luce della devianza tipologica insita nel mio mestiere, mi limitai a mettere insieme i ricordi di alcuni luoghi, collegandoli all’emersione dei loro codici olfattivi.
Su tutti, mi venne in mente per prima Le Métro de Paris. Quell’odore penetrante, acuto, al limite del fastidioso, ma sempre caratteristico, dell’aria ventilata artificialmente lungo le correspondences tra una linea e l’altra; un percorso che a volte dura più del viaggio o dell’attesa.

Parigi, ingresso storico alla metropolitana
Sono legatissimo al métro parigino. Più che al The Tube di Londra, del quale per quanto mi volessi sforzare di agguantare un odore preciso, mi venne in mente solo il ricordo di una stazione senza più nome, su verso Camden, lontanissima dal centro, durante il viaggio notturno di due ventenni.
Neanche quella milanese è rimasta nella mia bacheca degli odori. Un passaggio di scambio a Cadorna, uno da scappare a Lambrate; poi Porta Garibaldi a trovare una cugina che per un po’ aveva abitato in corso Como e ancora Repubblica, dove nelle poche volte che ci sono passato ho preso solo rovesci di pioggia in entrata e in uscita, insieme ai consequenziali profumi di bagnato.
Roma invece no, è diversa: per me è famiglia. Il mio primo assaggio della metro romana (se mai si può chiamare così), da piccolo fu l’odore del ferro dei binari, giù dentro le volte e il travertino delle stazioni, che mi apparivano, non so perché, come l’antro di una strega.

stazione Piramide, piazzale Ostiense, Roma
E poi di nuovo ferro, che risaliva da sotto i treni nel tragitto che da Flaminio andava a nord, verso alcuni zii e molti cugini. Ma ricordo anche Ostiense, sempre ferro, altri zii e cugini.
Un altro stop romano mi portò un giorno a San Lorenzo, allo studio di alcuni ragazzi che facevano bellissima grafica. Non c’era la movida allora nel quartiere. È stato in un’altra vita e non so che fine abbia fatto quella banda di pazzi, ma l’odore dei loro bozzetti è rimasto nel mio dna, soprammesso a quello degli inchiostri della tipografia dove Michela stampava le mie “creazioni” qua a Messina, tra una malaparola e un sorriso.

ville Savoye, Poissy, Paris
Ancora un incrocio di città. Di nuovo Parigi. Credo che ci fosse un odore preciso a Ville Savoy e a Maison La Roche, due delle tappe obbligate del mio primo tour da studente di architettura, a scoprire Le Corbusier. Forse erano i materiali da costruzione. Sì, direi che spesso sono i materiali a fare le differenze.

maison La Roche, Fondation Le Corbusier, Paris
Poi magari mi sbaglio e mi piace soltanto ricordare che quell’odore, in quei giorni, ci sia stato davvero. Ero giovanissimo. In effetti, quando quasi dieci anni fa visitai il Pavillon de l’Esprit Nouveau, sempre di Corbu, quello ricostruito a Bologna, sentii solo odore di chiuso. L’hanno ristrutturato di recente. Spero di tornarci per sentire il nuovo odore.
Case famose e case d’ogni giorno. Anni ’70 profondi, Torino; palazzone del centro storico. Con i miei eravamo andati a trovare certe persone poi sparite dalla nostra visuale di vita. Due ricordi: la tromba di una scala a tre rampe che, essendo io all’epoca un piccoletto, mi sembrò profondissima e uno “sgabuzzino dei desideri” dove, stipati fino a raggiungere il soffitto, c’erano infiniti fumetti di Diabolik.

Diabolik e Eva Kant
Leggevo altro allora, ma quel giorno iniziai ugualmente una lettura così lunga che non la smisi più, mentre un odore acre, penetrante mi accompagnava costantemente. Solo anni dopo capii che la compagna di quel lontanissimo ricordo torinese era stata l’umidità dei muri dello stanzino.
Altre case d’ogni giorno. Messina, l’isolato con cortile di mia nonna: tutti gli odori della cucina in comune fra i vicini, dai fritti di pesce ai bolliti di carne al sugo. Il ricordo olfattivo principale, però, è quello della pasta e fagioli, addensata, come si faceva sempre in quegli anni. Come la fanno ancora solo le nonne. Quelle case erano un tutt’uno con i cibi che vi si preparavano.
Case di passaggio. Un appartamento affittato per una vacanza a Barcelona che non riuscivamo a trovare perché si entrava, non si sa perché, da un negozio di biciclette o meglio, era più un deposito. Credo che lo assocerò per sempre all’odore delle gomme e del grasso delle catene.

Barcelona, Montjuich e Plaça d’Espanya
Quella casa nascosta vicino a Plaza Espanya ci fece dannare l’anima, ma dalla terrazza si vedeva tutta l’Exposicion del ’29, compresi i campanili farlocchi copiati da quello di San Marco a Venezia.
Un ricordo recente, per interposta persona. Mio figlio in visita allo studio di alcuni colleghi architetti d’oltre Stretto. “Papo, entrando ho sentito lo stesso odore del tuo studio”, mi disse sorpreso. “Mi ha fatto impressione”.
Forse gli studi degli architetti conservano spesso un odore comune. In effetti, tengo tutti i rotoli dei disegni provenienti dal passato. Se non hanno il profumo felice degli edifici costruiti, fanno emergere pur sempre quello dell’architettura progettata.
Ancora un salto di luoghi. Ora sono di nuovo a Londra. La scala interna e il corridoio comune di una casa georgiana. Li associo alle vernici bianche a smalto di una boiserie e al legno scricchiolante e saturo d’umidità dei gradini. Entrambi forti e profondi.
Molto meglio comunque dell’odore, inesprimibile a parole, del wc men di un pub alla New Town di Edimburgo, dove l’orinatoio a muro era proprio un muro metallico comune a tutti, su per un gradino e con un canale di raccolta giù, ma purtroppo senz’acqua.
E ancora: Bibliothèque du Centre Pompidou, alla ricerca di un libro in francese su Antonello. Libri e carta dappertutto, finanche dentro il naso. Facevano il paio con la pavimentazione, di moquette e pvc, e con il metallo degli scaffali e dei carrelli. Contenitori e contenuto che si scambiavano gli odori.

Bibliothèque du Centre Pompidou
Il pvc nero bullonato lo trovi in moltissime architetture recenti e recentissime. Non so perché ma mentre scrivo lo associo a due edifici che non hanno assolutamente nulla in comune, ma è una memoria olfattiva molto nitida.
Una sala espositiva al piano panoramico della Grande Arche a La Défense, Parigi, e la gradonata a doppia rampa di un edifico un tempo afferente a Ingegneria al campus universitario a nord di Messina, che frequentavo per via della biblioteca. Ci avevo trovato dei libri per studiare il piano Piccinato di Napoli del ’39, per l’esame di Teorie Urbanistiche.
Un altro salto spazio-temporale. Un odore paradossalmente reale e immateriale allo stesso tempo: l’odore della libertà. Quello che sentivo sparire alle mie spalle mentre mi addentravo nei corridoi del carcere di Gazzi, qui a Messina, accompagnato dagli agenti penitenziari.

Messina, casa circondariale di Gazzi
No, non avevo commesso alcun reato e non c’erano pene da scontare. Ci andai per un progetto a favore dei carcerati dedicato ad alcuni luoghi storici della mia città. Allora facevo parte di una fondazione come delegato e non ero solo all’incontro.
Ricordo due cose precise di quel pomeriggio. Le facce attente degli allievi carcerati, qualcuno con diversi omicidi di mafia sulle spalle, e il rumore dei cancelli che sbattevano dietro e davanti a noi, a segnare i nostri spostamenti a compartimenti stagni.
Non feci in tempo a sentire a pieno l’odore del penitenziario, ma vi assicuro che non è affatto un rimpianto. Da quel giorno, però, riconosco ancora di più e in ogni momento, l’odore della libertà.
E poi ci sono le chiese. Se una chiesa non sa di chiesa non ti fa venire voglia di pregare. Non c’è niente da fare, le chiese hanno un loro odore. Sarà l’incenso o la cera delle candele vere, laddove siano ancora rimaste, sarà il legno dei sedili oppure la pietra. Saranno gli stucchi o il cerimoniale.
Per me chiesa e pietra significano innanzitutto Sant’Agata ad Alì, a qualche chilometro a sud di Messina, un luogo di vita durato quasi un anno insieme al mio caro amico Franco e a Maria, mia moglie.

Alì, Messina, Chiesa Madre di Sant’Agata
Non fu un semplice lavoro di rilievo quello per Sant’Agata, ma un pezzo di esistenza, il nostro laboratorio d’architettura più completo. Ciò che da allora in poi avrebbe dato un senso al termine restauro. Fu dove tutto cominciò e dove, spero, non sia ancora finita.
Invece la prima volta che andai a Forte Cavalli, una delle più belle tra le Fortificazioni Umbertine di Messina, sentii l’odore terribile di una porcilaia abusiva ricavata dentro un rudere prospiciente. Il forte sembrava una struttura irrecuperabile all’epoca.

Forte Cavalli, località Larderia, Messina
Sono passati poco più di trent’anni da quel giorno e molte cose nuove sono intervenute nel frattempo. I maiali non ci sono più e grazie all’opera di alcuni “illuminati”, tra cui il mio amico Roberto, quel luogo è diventato un museo storico visitabile. Ci vedi tutto lo Stretto da lassù.
Tra le architetture che vivono dell’odore del loro contenuto ci sono i mercati. Anche quelli immateriali all’aperto come l’inarrivabile Ballarò e quel poco che resta della Vuccirìa a Palermo o come la mitica Piscaria a Catania, il mercato ittico più incredibile dell’Isola.

Palermo, mercato di Ballarò
I loro confini fisici sono le facciate delle case, i basolati delle strade, il cielo. Molto diversi dalla più nota La Boqueria, appena rientrata dal filo della Rambla a Barcelona, il mercato coperto (ma un tempo scoperto) più famoso di Spagna, dove l’esposizione della merce diventa coreografia e rappresentazione; essenza stessa della vendita e, ovviamente, odore perfetto.

Barcelona, La Boqueria, interno
Ma nulla a che spartire neanche con il Borough Market di Londra, un luogo dalle tante architetture eterogenee. Uno street food fest più che un mercato. Un odore composito, pieno di tanti odori.

Londra, The Borough Market con The Shard sullo sfondo
Non prendetemi per eretico, però, se in questo intreccio fra edifici, luoghi famosi e cibo ci metto pure qualcosa di personale e più minimal. Il negozio italiano di due nostre amiche italo-francesi, Rosa e Sylvie, alla République, tanto per cambiare sempre a Parigi.
Ricorderò per sempre la mia prima visita in quel luogo. Dopo un’intera giornata di cibo francese, varcammo quella passaporta che ci conduceva nel mondo italiano. Fu come abbracciare d’un colpo l’intera nazione, dal Brennero a Lampedusa. Quei prosciutti e formaggi esposti accanto alla fila dei piatti pronti erano la sublimazione dell’odore dell’Italia.
Mi sentii più italiano di quando vincemmo la Coppa del Mondo di calcio coi francesi. La vera Unità Nazionale potrebbe ritrovarsi, in effetti, nella splendida diversità del nostro cibo peninsulare. E ovviamente nei suoi odori che saranno sempre più accattivanti delle architetture che dovrebbero contenerli.
Mi rendo conto comunque di aver deviato molto dall’intento che avevo al momento di decidere il tema di questo scritto. Recupero ricordando l’odore preciso che hanno gli interni degli edifici costruiti tra la metà degli anni ’50 e il finire dei ’60 del Novecento.
Le palazzine di quel tempo si riconoscono subito: i segati di marmo per i pavimenti, le porte interne tamburate con l’inserto centrale in vetro, gli avvolgibili in plastica, gli infissi in profilati di ferro. Messi tutti insieme, quei materiali si trasmutano in una sostanza olfattiva specifica.
Ugualmente un odore comune hanno sempre avuto, al mio naso, gli istituti religiosi più importanti della mia città, costruiti quasi tutti in un periodo ben preciso, nella ricostruzione post terremoto del 1908, allungatasi agli anni ’30 e ’50 del secolo.
I marmi, le pitture, le porte e le finestre in legno, i portoni pesanti, hanno ricomposto i loro singoli odori in un’unica percezione olfattiva che si è trasmessa persino alle suore e ai novizi, facendo il paio pure con l’odore di “pulito sanitario” spesso normale in quegli ambienti.
A proposito di sanità, non aspettatevi che parli di ospedali. Preferisco tenermene alla larga.
Meglio invece i teatri antichi, fatti di stucchi, tende e legni o, ancora di più, i cinema. Quelli di un tempo, impregnati del fumo allora legale degli spettatori, avevano un odore decisamente diverso dalle multisala attuali, ma non è certo nelle poltroncine la differenza.
In definitiva, è una verità che gli odori dei luoghi abbiano una loro storia di sedimentazione e che spesso si fissino definitivamente nel naso e nell’anima delle persone.
Per questo l’essenza che ci rappresenterà meglio sarà sempre e comunque quella di casa, quell’insieme complesso di odori emanato dai mobili, dai vestiti, dai cibi e dalle persone, che diventa essenza stessa di vita.
Ma ogni casa è diversa e quando capiterà di viverne due alternativamente per molti anni, in due città, com’è capitato a me, ti sembrerà sempre di entrare e uscire da due mondi diversi e, in qualche modo, anche da vite ogni volta nuove.
Articolo interessantissimo. La corteccia piriforme, che si occupa del senso dell’olfatto, ha questo potere strano, di far riemergere molto velocemente ricordi (sopiti) da altre aree del cervello. “Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli, si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, perché lo si avverta, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo.” – Marcel Proust