14 Novembre 2017 By Cristiana Zamboni

La solitudine interiore libera il genio creativo.

Gli occhi raccontano storie che vivono nella solitudine interiore, condizione a volte vissuta come condanna, ma che è anche pura liberazione, necessaria ad esprimere chi siamo ed il nostro genio creativo.

di Cristiana Zamboni

Morning Sun, Edward Hopper 1952

Trovarsi dinanzi alle opere di Michelangelo, Van Gogh, Hopper ed altri artisti non è diverso dal passeggiare per le vie delle nostre città, osservando gli sguardi. La capacità degli occhi di raccontare storie è risaputa. Storie che vivono nella solitudine interiore, condizione a volte vissuta come condanna, ma che è anche pura liberazione, necessaria ad esprimere chi siamo ed il nostro genio creativo.

Vecchio che soffre, Vicent Van Gogh 1890

Il linguaggio del corpo, inconsapevole, non sa tradire le vere emozioni di cui vive questo mondo moderno e saperle osservare può portare a perdersi nella più grande contraddizione umana. Per comprenderla non ti resta che disegnarla. La senti fluire dai tuoi occhi alla tua mano e da lì alla tela. Finita, puoi osservarla e conoscerla.

Disegnare mi ha insegnato ad osservare ciò che la realtà, spesso deformata dalle mie sensazioni, mostra veramente.  Osservare l’essere umano nelle sue dimensioni. Senza stravolgerlo, per guardarlo e rappresentarlo. All’università mi proposero un corso per insegnare l’autocoscienza attraverso il disegno.

Particolare di Caronte Cappella Sistina
Michelangelo Buonarroti

Feci la prima lezione e compresi subito il suo grande potere, il „conoscersi“. Attraverso il tatto, attraverso l’immagine di sé, in una foto scattata da altri. Ci si poteva sentire, unendo la sensazione tattile a quella visiva. La seconda spesso tradisce, ma la prima può accompagnarci verso ciò che siamo. Portarci lì, dove la solitudine può farci da Caronte nel viaggio in noi stessi. La solitudine, una condizione da cui rifuggire, ci spinge ad essere ovunque e con chiunque. Ci fa assumere atteggiamenti convulsivi ed iperattivi, mai veri.  E’ nella solitudine invece che siamo davvero noi.

In ogni uomo esiste un angolo ove posa, in modo confuso o maniacalmente ordinato, tutti i ricordi e le emozioni intense di cui è sostanza. Ed è lì che si nasconde per viverle o per far tacere chi è.

La camera di Vincent ad Arles, Vincent Van Gogh 1888

 

“La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà” – Fabrizio De André

La libertà citata da Fabrizio De André è quella che da sempre l’uomo rincorre ma, sfuggendo alla solitudine, dimostra solo la sua ciclica incapacità di viverla.

Dolore, Vincent Van Gogh 1882

Gli artisti  conoscono bene la solitudine e hanno il coraggio di viverla per raccontarla. Spesso è fonte d’ispirazione necessaria per evolversi e creare, a volte è così alienante da volerla sfuggire, per essere „come gli altri“. Conditio sine qua non che rende le loro opere, opere di straordinaria bellezza capaci di insinuarsi nella solitudine dell’osservatore e riconoscersi.

Un paio di scarpe, Vincent Van Gogh 1888

Nel suo intimo, l’artista, riscopre la sua umanità. Si ritrova a dover scegliere come affrontarla. La odia e la sfugge fino alla psicosi ed alla morte. Oppure la osserva e la racconta distaccato. O la trasforma nel luogo necessario al suo genio creativo. Ecco perché l’arte deve essere vissuta come un’esperienza interiore, nella propria solitudine.

Attraverso la solitudine l’artista arriva all’ essenza umana. E, subordinata al suo sentimento, la racconta nelle opere.

“Senza una grande solitudine nessun serio lavoro è possibile” – Pablo Picasso

Van Gogh ne è l’esempio eclatante. Vive la solitudine  come una malattia che lo porta all’isolamento forzato fino alla pazzia. Non vuole esser solo, vuole omologarsi al genere umano. Per contrastarla scrive infinite lettere al fratello Theo. Poco prima di morire, ultimata l’opera più rappresentativa di questo sua lotta – “Campo di grano“ –  in una lettera al fratello, scrive:

„Sono immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento assolutamente imbarazzato nel tentare d’esprimere tristezza ed estrema solitudine“.

Campo di grano, Vincent Van Gogh 1890

Cerca di stemperare la solitudine ricercandosi attraverso i molteplici autoritratti.

Autoritratto Vincent Van Gogh
1889

Una forma di auto-identificazione, una ricerca di similitudini fra lui ed  il mondo a cui vuole appartenere. E’ uno stato forzato. Prova angoscia per il suo futuro sofferente, consapevole d’esser rinchiuso in una fragilità psichica che lo porta ad esser violento con se stesso e gli altri.

 

Una solitudine violenta che contrasta con quella elegante e moderna  di Edward Hopper. Pittore dell’America dei primi del Novecento che vive a settantaquattro scalini sopra il mondo e la sua mondanità. La sua solitudine è silenzio, è un attimo freddo. Come un bel vestito indossato da un manichino in una vetrina vuota. Illuminata da luci al neon, sofisticate. Soggetta all’incapacità di comunicare dell’uomo.

Interno d’estate, Edward Hopper 1909

I suoi soggetti sono soli anche in rapporto con l’osservatore, non raccontano, volgono il loro sguardo verso qualcosa che allo spettatore non è concesso vedere. E‘ al di là della sua realtà.

Stanza a New York, Edward Hopper 1932

Sottolinea questa solitudine moderna ed artificiosa. Una condizione non condivisibile, vissuta con l’inquietudine del trovarsi estranei al mondo.

“Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri” – Cesare Pavese

La solitudine di Hopper è un atto unico. Mutata in ogni momento, a se stante ed irripetibile.

Stanza d’albergo, Edward Hopper 1931

L’artista racconta  la solitudine perchè la si sappia  riconoscere. In quei fermi immagine pone la consapevolezza della sua esistenza. Ci fa sentire parte di quel silenzio, di quel sentirsi soli.

Facilmente ci si può riconoscere nella sua opera „Compartiment C Car“. Un viaggio in treno, la lettura di un libro che ti estranea dalla realtà. Sentiamo il tempo dell’artista e del soggetto come il nostro tempo, come la nostra solitudine.  Nelle sue opere diventa reale e  possiamo sentirla. Ne siamo consapevoli e, silenziosamente, possiamo scegliere come viverla.

Scompartimento C, Carrozza 293, Edward Hopper 1938

A volte , però, l’esser soli  diventa un viaggio necessario all’artista. Un condizione naturale e ricercata. L’isolamento è il momento per ricercare in sé  il genio e creare l’opera d’arte.

Michelangelo Buonarroti, il genio della Cappella Sistina, fu un uomo solo per sua scelta e fece della solitudine una qualità del suo destino.

“Nessuno è più solo di chi è stufo della propria compagnia.”- Michelangelo

Ritratto di Michelangelo

Per lui fu una compagna di vita necessaria, il suo confine tra l’uomo e l‘artista. Il luogo in cui  si riveste della sua vera natura ed amore per le forme, le osserva, le studia così da crearne opere perfette. Le dà vita, scolpisce vene e muscoli anche quando dipinge. Senza compromessi e falsi pudori. Accetta la sua natura e la vive, nel suo luogo, come realmente vorrebbe poterla vivere nel suo tempo.  Il suo esser irrequieto , insoddisfatto, incapace di sottostare agli ordini altrui, lì trova pace.

Una solitudine che genera vita e bellezza. In silenzio con se stesso durante la creazione della Cappella Sistina, si racconta, che di notte lo si poteva  sentire parlare tra sé e sé, a voce alta, mentre analizzava il suo lavoro e decideva come procedervi. Per Michelangelo, la solitudine era un veicolo verso il divino e solo così poteva trovare lo spunto per rappresentarlo. In essa trovava la dinamicità atta a creare la forza dei suoi personaggi.

 

La condizione di „uomo solo“ per l’artista era la realtà, vedere e sentire il vero. Avvicinarsi al divino. Umilmente conoscersi, nonostante il suo continuo bisogno d’affetto che placava guardando l’immensa bellezza delle sue opere da lui generate. Era critico verso il suo lavoro, ma capace di migliorarsi attraverso una sua analisi interiore concependo se stesso come un altro essere pensante. Col suo stesso genio e la stessa capacità, da cui non preservarsi, tanto meno proteggersi, ma confrontarsi e completarsi artisticamente. La sua solitudine, che genera la vera bellezza dell’arte, è la chiave di lettura necessaria ad interpretare la crisi di valori del Rinascimento.

La solitudine rimane la più misteriosa e studiata „patologia“ di tutti i tempi. C’è chi la sfugge fino ad annullarsi. Chi la vive come una malattia che intrappola in se stessi per proteggersi dal mondo, oppure come una condizione sociale dell’evoluzione moderna, fredda ed inconsapevole. O come un posto felice, superiore, libero dove trovare la propria vera dimensione atta a liberare il genio e lasciarlo creare.

E’ la grande contraddizione umana, un’inquietudine da cui vogliamo scappare ma necessaria per conoscersi intimamente, accettarsi e, come diceva Michelangelo, evolversi.

Amar noi stessi per apprezzare gli altri ed amarli per scelta. Una forma di maturità emozionale. Accettare ciò che siamo, conoscerci, disegnarci nel quadro del mondo per completarlo con  la nostra unicità.