La Sindrome di Stoccolma
Una breve riflessione su un fatto di cronaca che ha condizionato in maniera non immaginabile le loro vite. Luca Tizzi ce ne racconta i fatti e quelle che sono le sue impressioni nella nostra sezione dedicata alle libere divagazioni.
Il 23 Agosto del 1973 un uomo evaso da carcere di Stoccolma, un certo Jan-Erik Olsson, tentando una rapina in una banca della città, e a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine, tenne in ostaggio per 130 ore quattro persone che erano all’interno della banca. Malgrado avessi 12 anni all’epoca dei fatti ricordo ancora i telegiornali dell’epoca perché il fatto ebbe risonanza mondiale. Riuscì durante le trattative a far liberare un altro detenuto che lo avrebbe dovuto aiutare nella fuga. La vicenda finì con l’irruzione della polizia nei locali della banca che, utilizzando dei gas lacrimogeni, riuscirono a liberare gli ostaggi senza che nessuno, neppure il rapitore, perdesse la vita. Sembra che in quell’occasione sia stata utilizzata per la prima volta un’indagine psicologica sui sequestrati. Da questa indagine si apprese che le persone tenute in ostaggio erano più solidali con il loro rapitore che con la polizia dalla quale temevano di venire uccisi.
Non essendo in grado di valutare le reazioni e conseguenze psicologiche del fatto mi rifarò a quanto riportato su internet. La logica ci dice che in una situazione simile l’ostaggio, per proteggere la sua incolumità, dovrebbe tentare di farsi amico del sequestratore ed evitare così maltrattamenti o altro. In realtà quello che si verificò a Stoccolma fu un riflesso automatico che, senza logica apparente, portò rapiti e rapitori a sentirsi parte di un’unica squadra, quelli dentro la banca contro quelli fuori. Durante le trattative Olsson minacciò di sparare alla gamba di uno degli ostaggi e questo, si seppe in seguito, accese un senso di gratitudine nei confronti del rapitore. Gli era grato che avesse scelto di sparargli a una gamba e non a lui, come se il suo arto di fatto non appartenesse alla sua persona. Gli ostaggi arrivano persino a giustificare una certa violenza nei loro confronti come necessaria perché li protegge da un intervento più nefasto della polizia. Si sentono in trappola ma a costringerli non è il loro carceriere bensì le forze dell’ordine che non li lasciano liberi; libero il rapitore, liberi gli ostaggi.
La sindrome di Stoccolma, pur non essendo codificata nei manuali di psicologia o psichiatria, si è manifestata molte volte in casi ancora più eclatanti di quello che ne segnò l’origine. Nel 1974 la ricca ereditiera Patricia Hearst, nipote di William Randolph Hearst, uno degli uomini più ricchi del mondo e forse il più influente mediaticamente, proprietario di giornali e televisioni ispirò Orson Welles per il suo film quarto potere, Patricia Hearst dicevo, rapita dall’esercito di liberazione simbionese arrivò a partecipare assieme ai suoi sequestratori ad una rapina in banca. Fu condannata per questo ad otto anni di reclusione nonostante la difesa asserisse che Patricia fosse vittima della sindrome di Stoccolma, il tribunale non ritenne comunque valida la teoria del suo avvocato ritenendola quindi colpevole del reato.

Patricia Hearst
Il caso di Giovanna Amati, tutto italiano, racconta del suo rapimento, durato alcuni mesi, durante il quale sembra si sia innamorata di uno dei rapitori. Natasha Kampush, austriaca, fu tenuta prigioniera per otto anni dal suo rapitore, quando riuscì a fuggire raccontò di essere fuggita perché i due, lei ed il rapitore, avevano semplicemente litigato. Nel corso degli anni aveva avuto più volte occasione e modo di scappare ma aveva sempre preferito non farlo. Shawn Hornbeck, rapito nel 2002 e ritrovato nel 2007 quasi per caso, a seguito delle ricerche di un altro ragazzo rapito, fu visto giocare tranquillamente nel giardino di casa del suo rapitore tanto che i vicini pensavano fossero padre e figlio, aveva accesso a internet e arrivò persino ad inviare una mail ai genitori con scritto: “Per quanto tempo pensate di cercare ancora vostro figlio?”.
In questo preciso momento stiamo ancora una volta vivendo, chi più chi meno, una forzata limitazione delle libertà personali, in molti paesi d’Europa e del mondo, compreso il nostro, è fatto divieto causa la pandemia da Covid-19 di uscire di casa per divertirsi, di andare al cinema, nei musei, persino a scuola. Ci è consentito andare a lavorare, a fare la spesa per sopravvivere e poco altro, poco o niente è acquistabile in negozio e tutto o molto tramite internet. Per evitare assembramenti non è possibile recarsi al bar o al ristorante, si può solo lavorare e sopravvivere. Non voglio analizzare, ne valutare, le conseguenze economiche di questa situazione ne tantomeno quelle epidemiologiche ma vorrei solamente farvi notare quello che a me pare evidente. In questo momento siamo tutti vittime di una globale sindrome di Stoccolma dove gli ostaggi, i cittadini, parteggiano con il loro sequestratore, il governo, contro un virus che li fa sentire protetti solo se prigionieri. Dal punto di vista medico può avere un senso ma da quello umano è una cosa terribile.
Note biografiche sull’autore
Luca Tizzi nasce a Firenze nel 1961, la abbandona dopo 30 anni e si trasferisce nel paese di origine dei genitori, sull’Appennino Tosco-Romagnolo in provincia di Forlì-Cesena. Percorso di studi arruffato, bancario per motivazioni alimentari, ma senza convinzione, si interessa di Cinema, Musica, Fotografia, Arte, Fumetti e molto altro. Gli piace scrivere anche se dice di non esserne capace, gli piace fotografare perché non sa disegnare, ma anche in questo dice di riuscire poco bene. Sogno nel cassetto, diventare ricco scrivendo cose orribili che leggono in molti. Libere Divagazioni è la rubrica di intrattenimento da lui condotta, nella quale scrive di musica e canzoni, ma anche di arte e libri e molto altro, con la spiccata caratteristica che lo contraddistingue di saper ricercare l’aspetto meno noto, la curiosità più stuzzicante, per regalarvi delle chicche molto appetitose.
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