La Sicilia, il Cinema e la Meraviglia
Quel giorno in cui mi chiesero di intervenire alla presentazione di un libro sulla Sicilia nel Cinema, d’istinto mandai a memoria una playlist dei film che avevo visto. Il pensiero fu talmente forte che intorno a me tutto cominciò ad annebbiarsi. Come diremmo in lingua siciliana: «mi cominciò a firriàre la testa».
di Francesco Galletta
Una lista di film ambientati in Sicilia è infinita. In verità quel giorno, non pensai a un elenco di titoli ma allo straripante campionario d’immagini e di suggestioni emotive vissute nel momento in cui avevo visto i film o che associavo ad essi. Come se la Sicilia del Cinema, tante volte ritrovata sullo schermo, si stesse di nuovo materializzando nella mia mente in piccoli pezzi e in singole inquadrature. Anzi meglio, in veri e propri flash.
Mi rividi allora al cine Orione, alla scena di Stanno tutti bene di Tornatore girata al cimitero di Sant’Alessio Siculo con il castello sullo sfondo. Un’inquadratura visibile dall’autostrada per Catania, come scoprii poi con sorpresa. Ricordai pure il commento di uno spettatore supponente alle mie spalle, alla scena onirica della spiaggia: «Ma questo è Fellini!», intendendo che Tornatore copiava il regista riminese.

TORNATORE – Stanno tutti bene
Invece, dei tre film del Padrino, per primo mi venne in mente l’ultimo, l’unico visto al cinema, all’Olimpia, quando per chiarire che la storia si era spostata in Sicilia, inquadrando un tempio di Agrigento appariva il sottotitolo Palermo. Ricordai, allora, quell’enorme «Sììììì, vabbèèè!!!» che si levò in sala, perché nessuno di noi poteva sopportare l’evidente mistificazione.
Mi tornò in mente, ancora, che il giorno in cui Michelangelo Antonioni morì, diedero in tv L’Avventura e io, incredibilmente, accesi proprio al momento della scena girata a Messina, la mia città, con Gabriele Ferzetti che attraversava il viale San Martino al Ponte Americano. Ripensai pure al regista seduto su un dolly, in una foto scattata in quella occasione, che vidi solo qualche anno fa, a una mostra qui in provincia.

ANTONIONI sul set de L’Avventura
Mi ricordai pure delle scene a Noto, all’epoca quasi sconosciuta al grande pubblico e collegai il pensiero a una battuta de Il ladro di bambini di Gianni Amelio, sempre per alcune sequenze girate là. In quel film proprio uno dei bimbi protagonisti, riferendosi al luogo e travisando la parola originale, diceva che la città era stata costruita in stile marocco.

GABRIELE FERZETTI a Noto
Poi, a un certo punto, gli estremi della bocca mi si piegarono da soli verso il basso. Mi sovvenne l’accento fastidioso di Giuliano Gemma in Corleone, uno strano film del ’78, con quelle ripetute Aah! nasali alla fine di ogni frase. E nel pensiero ci misi dentro pure quella volta che per scherzo, in Romagna, a un gruppo di colleghi proposi di risolvere un problema con «un’offerta che nessuno poteva rifiutare», mimando la voce e i modi del giovane don Vito/De Niro nel secondo Padrino.
Poi mi si pararono innanzi Fuocammare e Respiro, due film lampedusani, l’uno di Rosi, l’altro di Crialese. Entrambi visti in tv, il primo parzialmente, il secondo per intero. In quel momento, presi coscienza che, di proposito, evitavo ormai di vedere alcuni film al cinema; ma non per questioni di tempo. Semplicemente, mi ero reso conto che, negli anni, sopportavo meno le emozioni di certe tematiche forti, amplificate dalla sala ma che invece mi arrivavano smorzate nel più banale passaggio televisivo.

RESPIRO con Valeria Golino
Ho citato Tornatore. Non si può ragionare sul Cinema e la Sicilia, né sui film girati nell’Isola, senza pensare al regista di Bagheria e, inevitabilmente, a Nuovo Cinema Paradiso. All’epoca non fui tra quelli che videro in massa nella mia città, unica in Italia, la versione originale del film. Vidi la seconda, quella già da Oscar, al cinema Lux. Penso che Paradiso appartenga ormai alla memoria collettiva dell’Isola.
L’ho rivisto decine di volte, in tutte le versioni. Tre al cinema, ma non potrò mai scordare l’emozione della prima. Ero giovane e non sapevo ancora cosa avrei fatto nella vita. Andai a una proiezione del pomeriggio. Uscii dalla sala passando dal buio pesto al sole accecante del tramonto. Sconvolto, in lacrime.
Quella frase di Alfredo a Totò, «Vatinni, chista è terra maligna», era stata un pugno allo stomaco. Ci pensavo anch’io in quel periodo ad andare via dall’Isola e il rimpianto per non averlo fatto, spesso ritornò. Scappai, in effetti, per diversi anni ma poi tornai definitivamente. Ci sto ancora; anche bene, direi.

NUOVO CINEMA PARADISO
Ebbi un’altra serie di flash: immagini di film molto diversi da Paradiso. Rividi Roberto Benigni, solitario alla stazione di Palermo in Johnny Stecchino e, di nuovo, sotto le bellissime pensiline della stazione di Taormina ne Il piccolo diavolo, i luoghi in cui i protagonisti arrivano all’Isola nei due film. Del Piccolo diavolo ricordo la reazione in sala alla scena seguente quando Benigni, partendo dalla stazione, sul mare, raggiunge in pochi secondi l’assai distante convento del San Domenico, in collina, dove troverà Walter Matthau.

stazione ferroviaria di Taormina_Giardini, località Villagonia
In quel momento, noi messinesi che conoscevamo i luoghi ci sentimmo autorizzati a non farci ingannare dalla finzione del cinema, come il resto del mondo. Potevamo smontare il giocattolo. A pensarci, è una cosa unica. Le risatine di superiorità e le gomitate, in effetti, furono molte in sala, quella sera.

Il Racconto dei Racconti, Gole dell’Alcantara (ME)
Ancora altri flash. Ripensai a Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone e alle scene girate alle Gole del fiume Alcantara, dove avevo fatto il primo bagno con gli amici di un tempo lontano e due ragazzi danesi raccattati in autostop. Rividi la città terremotata di Poggioreale ne L’uomo delle stelle di Tornatore, dove uno dei cattivi che picchiano Castellitto era un messinese che un giorno ritrovai a suonare le tastiere nel gruppo di cui facevo parte. Poi, per non farmi mancare nulla, passeggiai anch’io – ma solo col pensiero – con Monica Bellucci Malèna in piazza Duomo a Ortigia, uno dei luoghi siciliani a me più cari.

Piazza del Duomo, Isola di Ortigia, Siracusa
Invece, tornando indietro di moltissimi anni, al tempo del liceo, rammentai di quando vidi in tv, per la prima volta, La terra trema di Visconti e di quanto fui colpito dalla voce narrante, così diversa da quella dei protagonisti. Un timbro forte e netto che a molti fece apparire il film quasi come un documentario.

VISCONTI – La terra trema
Poi ricordai quando dovetti spiegare a un tizio del Nord che in Divorzio all’italiana, Pietro Germi usava la Sicilia come metafora, scegliendo l’ambientazione isolana e l’ironia del racconto per evidenziare l’assurdo articolo 587 del Codice Penale sul delitto d’onore, un atto frequente anche nell’Isola a quei tempi, ma difeso oltre logica da una norma dello Stato Unitario abolita solo nel 1981.

PIETRO GERMI – Divorzio all’italiana
Ancora altri flash: un baglio, Franco Franchi dentro una giara e Ciccio Ingrassia accanto, in un episodio di Kaos dei fratelli Taviani, ispirato a La Giara di Pirandello. Lo associai a me e al mio caro amico Franco, seduti al tavolo del bar Vitelli di Savoca, per una foto d’obbligo in bianco e nero sulle tracce di Michael Corleone, Apollonia Vitelli e del primo Padrino. Poi la memoria si focalizzò su una faccia da caratterista.

KAOS di Paolo e Vittorio Taviani, episodio LA GIARA con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia
Ricordai Il giorno della civetta visto in tv con mio padre e ripensai al personaggio di Zecchinetta, interpretato da Tano Cimarosa. Ero piccolo. Mio padre mi disse: «Lo vedi quello? È Tano. Lo conosco. Una volta faceva il postino a Provinciale». In effetti Tano aveva solo un anno più di lui e Provinciale era il nostro quartiere. Tano fece tanti film, con registi famosi. Fece pure Cinema Paradiso. Era quello che dormiva in sala: gli mettevano uno scarafaggio in bocca. Una faccia indimenticabile.

Tano Cimarosa
Invece, riannodando la memoria su una testimonianza diretta, rividi Mario e il Mago, un film di Karl Maria Brandauer mai uscito in Italia, di cui feci persino il casting come figurante senza essere scritturato. Scelsero invece la mia ragazza, poi diventata mia moglie. Grazie a quella circostanza trascorsi un’intera giornata con la troupe durante le riprese messinesi che si svolsero ai laghetti di Marinello, sotto Tindari.

MARIO E IL MAGO – set (ph. F. Galletta)
Sulla spiaggia di quell’incredibile location avevano costruito un lido, anzi un bagno dato che nella finzione cinematografica il film era ambientato in Versilia. Fu un’esperienza unica dentro la magia vera del cinema. Osservai gli operai alzare le facciate finte del bagno, i fonici e il fotografo controllare il suono e le luci. E poi gli attrezzisti, il cestino del pranzo, il ciak, gli attori. Nel cast c’erano Anna Galiena e Julian Sands.

MARIO E IL MAGO – set (ph. F. Galletta)
Pensai e ripensai a tanti altri film, quasi in uno stato ipnotico di assoluta astrazione dalla realtà. Come ebbe a dire il Sommo: «di meraviglia credo mi dipinsi». E in effetti, questo è il termine che mi venne in mente pensando al lungo rapporto fra l’Isola e il Cinema. Quella meraviglia vissuta nel momento della visione e l’altra, di livello superiore, che ruota intorno al senso stesso dei luoghi.
Dopo quella gran firriàta di testa mi sentivo tutto scunsuntutu, ma riuscii lo stesso a far seguire le riflessioni all’impasto vorticoso delle emozioni. Pensai che per quanti film avessi visto o stessi provando a ricordare, ce ne sarebbero stati sempre molti altri che stavo dimenticando.
Un elenco di soli titoli mi fece rialzare la pressione: Il Gattopardo, Mery per sempre, I cento passi, In nome della legge, Il postino, Il Bell’Antonio, Salvatore Giuliano, Stromboli, Sedotta e abbandonata. Mi feci, allora, una domanda semplice. Perché proprio la Sicilia? La meraviglia è figlia della bellezza dei luoghi? Della luce? Sarà la storia?

I cento passi
No, per niente. Se guardiamo al significato profondo della parola sfondo, ci può essere una prima possibile interpretazione. Un esempio: Matteo Garrone nel Racconto dei Racconti gira in Toscana, Lazio, Puglia e Sicilia, riunendo nella finzione filmica alcuni archetipi di paesaggi diversi, piegandoli al servizio della storia. Il castello di Donnafugata nel ragusano e le Gole dell’Alcantara nel messinese, i due luoghi siciliani, in quella narrazione sono soltanto un pezzo del tutto, uno sfondo funzionale.
Invece in film come La terra trema, L’Avventura, Stromboli, Salvatore Giuliano o Il Bell’Antonio, la storia e lo sfondo si riuniscono in un legame imprescindibile. Da un lato è pure ovvio: come si potrebbero filmare in modo realistico, Acitrezza, le isole Eolie, Portella della Ginestra o via dei Crociferi a Catania, se non girando negli stessi luoghi del racconto? Ma forse non è solo questo.
È evidente, infatti, che la storia e lo sfondo si congiungono pure in molti altri film. Per esempio Marianna Ucrìa e I Vicerè di Roberto Faenza o in Storia di una capinera di Zeffirelli, tutti con precise ascendenze storico-letterarie. Credo, però, che il livello superiore, quello della Meraviglia, emerga e si completi solo attraverso una triade di fattori: quando, cioè, al racconto e all’ambientazione, già sostanza comune, si accompagna il senso della metafora, quel percorso trasversale che partendo da un singolo luogo mentale (che nei film è anche un luogo reale), ne trattiene in sé molti altri.

villa Fegotto, set di Marianna Ucrìa
Ovviamente, sono considerazioni personali. Chiunque potrà dare spiegazioni diverse, immergendosi nella pura bellezza dei fatti e dei luoghi, raffigurati per ciò che sono. Ragionando, invece, nei termini qui espressi, Divorzio all’italiana è il film che meglio interpreta, a mio parere, il significato di Meraviglia, perché nella storia del barone Cefalù, di sua moglie Rosalia e della giovane Angela, si condensa il senso più alto della metafora, come spiegai a quell’occasionale interlocutore, connazionale del Nord, tanti anni fa.
Ricordiamo, infatti, che il film è tratto molto liberamente da un romanzo dai toni drammatici dello scrittore piemontese Giovanni Arpino, Un delitto d’onore, trasformato nella sceneggiatura di Germi, De Concini e Giannetti in una narrazione dai toni grotteschi. E dove poteva essere rappresentata quella storia incredibile se non in Sicilia? Dove se non qui, nell’Isola maledetta, poteva eternarsi quella commedia di finzioni feroci e maschere, di necessità sociali e di sentimenti forti, piena d’amara ironia e di quel gusto del paradosso che solo questa terra riesce sempre a esprimere, anche su un tema così doloroso?
Non vorrei fare la lista della spesa, espressione che il mio insegnante d’italiano di prima media riservava agli elenchi inutili dei nostri miseri temi d’allora, ma giova ricordare i riconoscimenti di questo capolavoro. In Italia ricevette tre nomination più tre vittorie ai Nastri d’Argento e un Globo d’oro; a Cannes il Premio per la miglior commedia e la nomination alla Palme d’Or.

Divorzio all’italiana
Mastroianni fu poi premiato con il BAFTA Award, più la nomination per il film. Negli Stati Uniti ebbe due Golden Globe: film e attore protagonista, due nomination pure all’Academy Award, all’epoca ancora Oscar, per regia e interprete e, a riprova della sua incredibile struttura narrativa, addirittura il premio per la migliore sceneggiatura originale. È uno dei film italiani con più riconoscimenti nazionali e internazionali insieme a Nuovo Cinema Paradiso.
C’è stato un periodo, a metà Novecento, che la Sicilia sembrava essere il set preferito dei registi più famosi. Per esempio, in appena cinque anni, fra il ‘60 del Bell’Antonio e il ‘64 di Sedotta e abbandonata, troviamo anche Salvatore Giuliano, Divorzio all’italiana e Il Gattopardo. Una cinquina da Oscar. In effetti, bisogna dire che, ai tempi, l’Isola era molto attrattiva e magari un bel po’ “selvaggia”. Nel senso più ampio del termine, ovviamente. Un posto dove tutto poteva essere rappresentato all’ennesima potenza.
Quel set incredibile era servito per mettere in scena ai registi non siciliani, tanto l’Isola quanto il paradigma dell’intero Paese. Infatti, riflettendoci su, parliamo di Divorzio all’italiana e non alla siciliana (anche se fecero un film comico con quel titolo, poco dopo) e i Gattopardi possono essere non solo gli isolani ma chiunque abbia un potere nazionale o internazionale e non voglia lasciarlo. Salvatore Giuliano, poi, è l’esempio di una ricostruzione storica dettagliata per uno dei tanti intrighi italiani del Novecento.
Ne potremmo citare a decine; mi limito al caso Mattei (anch’esso diventato film nel ’72; Gran Prix a Cannes e menzione per Volontè), all’eccidio di via Fani, alla strage di Bologna o al papello Stato-mafia. In fondo, i temi sono sempre le trame occulte di questo assurdo Paese. Invece per l’epoca in cui furono girati i film, la Sicilia come realtà in sé si rispecchia completamente in Sedotta e abbandonata, ne La terra trema, in Stromboli e ancora ne Il bell’Antonio, anche se qua l’argomento può essere traslato a tutto l’universo del maschio italiano.
Sono film aderenti alla realtà dell’Isola pure Il giorno della civetta e In nome della legge. Archetipi indiscussi di genere. Invece, Mafioso di Lattuada del ’62, cade troppo nella caratterizzazione, con un Sordi bravissimo che però non riesce a smorzare le sue inflessioni romanesche. Il Padrino poi potrebbe definirsi, con buona pace di tutti, come il luogo mentale di una Sicilia transnazionale; una meraviglia di più rapida comprensione per le anime semplici sparse nel mondo.

MAFIOSO di Alberto Lattuada
Al contrario, Tornatore nei film siciliani ritrae l’Isola da dentro, ricostruendola nei più piccoli dettagli. Certo, è pur sempre la sua versione dei fatti, ma spesso in essa riusciamo a ritrovarci; se non in tutto, almeno in parte. Da questo punto di vista, L’uomo delle stelle è la raffigurazione più pignola mai fatta dal regista sui volti, le voci e le posture dei suoi personaggi, per me più che in Paradiso o in Baarìa, aiutato certamente dal tema del film: il rapporto con i sogni che il cinema si porta dietro o che ci prospetta.
Nei tempi più recenti, invece, l’Isola ha perso un po’ del suo antico appeal o meglio lo ha trasformato, com’era anche giusto che fosse, ripartendo dal proprio interno con nuove espressività e magari una diversa meraviglia.

TANO DA MORIRE di Roberta Torre
Prendendo per brevità solo qualche esempio, passiamo dal sordido universo dei divisivi Ciprì e Maresco in Totò che visse due volte del ’98, alla sorprendente verve di Roberta Torre nel musical in salsa sicula Tano da morire del ’97: David come regista esordiente e miglior musica per Nino D’Angelo, più tre Nastri d’Argento (regia, musica, cast di attrici). Senza dimenticare Sicilian Ghost Story del 2017, di Piazza e Grassadonia, una realtà drammatica costruita con un’impronta estetica trasognata in favola fantasy. David alla sceneggiatura non originale e tre nomination, più due Nastri (fotografia e scenografia), con altre due nomination.

Sicilian Ghost Story
Una Sicilia più semplice e quotidiana, specchio ironico di se stessa e di mali più estesi, emerge invece nei film di Ficarra e Picone, duo comico in bilico fra teatro, cinema e tv, ma pure attori separati in Baarìa. Come nelle commedie romanesche e napoletane degli anni ’60, i due palermitani autarchici partono dall’Isola per affrescare un mondo più grande, girando in set siciliani sempre ritagliati sulla storia (la piazza e il Duomo di Palazzolo in Nati stanchi, il castello di Santa Lucia del Mela ne Il 7 e l’8, piazza Santa Barbara a Paternò, quella delle tre chiese vicine, ne La matassa).

Salvo Ficarra e Valentino Picone
Solo nomination per le loro belle commedie finora, ma nessun David o Nastro. Neanche per le musiche conterranee dei Tinturia di Nello Analfino o del grandissimo Paolo Buonvino, già David di suo per Caos calmo di Grimaldi e autore anche de L’ultimo bacio di Muccino.
A questa lunga schiera di nuovi artisti (guarda caso tutti palermitani) si è aggiunto da poco Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, già conduttore televisivo e regista da qualche anno. Il suo La mafia uccide solo d’estate del 2013 ha sbancato i botteghini convincendo pure i critici: David come regista esordiente e David Giovani più sette nomination; ancora quattro nomination e due premi (regia d’esordio e soggetto) ai Nastri.
Il seguente In guerra per amore del 2016, da un lato riprende i medesimi registri narrativi del film d’esordio, dall’altro ne amplia alcuni temi. Nel modo di costruire cinema di parte isolana Pif ha indubbiamente immesso un insieme di toni ora lievi ora grevi, ironici e drammatici allo stesso tempo, di sicuro molto personalizzati. Due film sono ancora pochi per tratteggiare una direzione stilistica, ma la sua è certamente una voce dal di dentro della Sicilia che merita attenzione.
Infine: non è cinema ma fiction e forse a qualcuno puzzerà già il naso, ma non c’è dubbio che al netto di tante produzioni da dimenticare, negli ultimi vent’anni Salvo Montalbano abbia preso, da solo, tutto il peso della tradizione cinematografica siciliana. Piaccia o no, il commissario con più audience tv nel Paese ha riportato l’Isola negli elenchi delle cartoline da collezione a colpi di sfondi e paesaggi.

casa del commissario Montalbano a “Marinella” (Punta Secca, frazione di Santa Croce Camerina, Ragusa)
Seppur ricostruita artificialmente da singoli pezzi staccati, quella Sicilia televisiva in fondo esiste davvero. Anzi, si può dire che abbiano fatto più Sironi e Zingaretti per il turismo isolano che l’Assessorato Regionale. Tant’è.
PS. Alla fine, alla presentazione di quel libro ci andai. Essendoci in scaletta anche altri relatori, parlai per molto meno tempo di quanto le visioni oniriche mi avessero ispirato. Ma forse fu meglio così.
Note biografiche sull’autore
Francesco Galletta (Messina, 1965), architetto, grafico. Titolare di Tecniche Grafiche alle scuole superiori; laureato con una tesi di restauro urbano, è stato assistente tutor alla facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria per Storia dell’Urbanistica e Storia dell’Architettura Moderna. Dottore di Ricerca alla facoltà di Ingegneria di Messina, in rappresentazione, con una tesi dal titolo: “L’Immaginario pittorico di Antonello”. Con l’architetto Franco Sondrio ha rilevato, per la prima volta, la costruzione prospettica e la geometria modulare dell’Annunciazione di Antonello. La ricerca, presentata in convegni nazionali e internazionali, è pubblicata in libri di diversi autori, compresa la monografia sul restauro del dipinto. Sempre con Franco Sondrio ha studiato l’ordine architettonico dell’ex abbazia di San Placido Calonerò nell’ambito del restauro in corso e scoperto a Messina un complesso architettonico della metà del ‘500, collegato al viaggio in Sicilia del 1823 dell’architetto francese Jaques Ignace Hittorff.
Per Artevitae Francesco Gallettà scrive nelle sezioni Architettura e Design, Arte e Cinema
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