19 Luglio 2019 By Gabriella Maldini

La crisi della coppia, specchio della fine del sogno americano.

Ultima puntata dedicata a come il cinema americano ha raccontato l’amore. Tema di oggi, la crisi della coppia come efficace metafora della fine del sogno americano.

di Gabriella Maldini

Dalla fine degli anni sessanta e ancor più con l’inizio dei settanta, la New Hollywood comincia a raccontare l’amore e il rapporto di coppia in modo sempre più realistico e quindi complesso, perfino controverso. Ma soprattutto, raccontando il naufragio della coppia, il cinema mostra senza mezzi termini la crisi della società americana. Il suo inesorabile implodere su ipocrisie, convenzioni e sempre più logori luoghi comuni; ma anche la perdita delle vecchie certezze e speranze. Insomma, la fine del sogno americano. L’esempio perfetto è La guerra dei Roses, diretto da Danny De Vito nel 1989.

La guerra dei Roses, 1989

Un film divenuto popolarissimo (tanto da essere trasposto anche sul palcoscenico come pièce teatrale)in cui il conflitto feroce tra marito e moglie è riassunto e messo in scena in un luogo cruciale, la casa: simbolo per eccellenza della stabilità sociale e affettiva, della progettualità e costruzione della coppia e della famiglia. Ma che qui il cinema trasforma in campo di battaglia, quello su cui moglie e marito si distruggeranno a vicenda.

Non solo. In questo film, che mescola sapientemente il registro della commedia a quello del dramma e perfino della tragedia, la casa incarna tutta la parabola della storia d’amore dei protagonisti. Nella prima parte, la pars construens, rappresenta la fase entusiastica e idealistica della costruzione, del rapporto sentimentale e della famiglia. Nella seconda parte, la pars denstruens, tutto quello che Barbara e Oliver Rose hanno costruito, crolla, viene ridotto in pezzi, diventando il simbolo di una crisi e di un naufragio ben più vasti e irreversibili, quello dell’intera società americana. Stessa parabola, ma mostrata con ancora più ferocia, quella di Revolutionary Road, del 2008, in cui Sam Mendez (lo stesso di American Beauty)dirige Kate Winslet e Leonardo Di Caprio, maturi al punto giusto, in una delle loro migliori interpretazioni.

Revolutionary road, 2008

Lei è una donna ancora giovane e sposata da poco che cova dentro di sé sogni e sentimenti troppo forti e troppo vivi per rassegnarsi all’omologata ipocrisia della provincia americana. Lui è un piccolo impiegato frustrato, con vaghe velleità di carriera, ma in fondo incapace di sollevare davvero lo sguardo dagli stereotipi dell’ottusa umanità che li circonda.

Leonardo Di Cpario e Kate Winslet in Revolutionary road, 2008

Ma cosa succede se spostiamo lo sguardo dal cinema americano a quello europeo? La prima sorpresa è vedere, ad esempio, che il nostro cinema italiano, aveva cominciato, con Antonioni, a raccontare la deriva sentimentale ed esistenziale della coppia già negli anni cinquanta (Cronaca di un amore, 1950) per poi arrivare all’apice del naufragio con il trittico di inizio anni sessanta L’avventura (1960), La notte (1961), l’eclisse (1962).

Monica Vitti e Alain Delon in L’eclisse, 1962

Ma mentre la New Hollywood denuncia la crisi anche sociale, politica, economica e culturale degli USA, il cinema italiano mostra questa lacerante deriva proprio nel momento in cui l’Italia vive le sue maggiori speranze e la sua ultima vera crescita economica, il famoso Boom.

Altra differenza saliente rispetto al cinema made in USA, è che quello europeo ed extraeuropeo è quasi sempre cinema d’autore e, come tale, propone ostacoli all’amore molto più raffinati. Pensiamo ad esempio all’amore – ossessione di Adele H. raccontato da Truffaut nel 1975.

Isabelle Adjiani in Adele H. una storia d’amore, 1975

O al Cuore in inverno (1992) di un altro maestro della nouvelle vague come Calude Sautet, in cui troviamo un ostacolo all’amore molto letterario e addirittura molto flaubertiano: l’inettitudine, l’incapacità di amare, e più in generale di vivere.

Emmanuelle Beart e Daniel Auteil in Un cuore in inverno, 1992

Un ultimo, sublime esempio è l’opera del grande cineasta cinese Wong Kar Wai, In the mood for love (2000); un film raffinatissimo che è una danza, una autentica poesia per gli occhi che deve molto al nostro Antonioni, con cui Wong Kar Wai ha anche lavorato. Una storia i cui protagonisti , entrambi sposati, s’incontrano quando scoprono che i loro rispettivi coniugi sono amanti, e, pur profondamente e sinceramente attratti l’uno dall’altro, non consumeranno mai il loro amore. Amore che, nonostante e forse proprio per questo, è un grande amore.

In the mood for love, Wong Kar Wai, 2000

Un amore che ci mostra come l’ ostacolo alla felicità non sia sempre quel destino epico e tragico che si compie nei gesti estremi delle tragedie greche o in quelle shakespeariane, ma anche uno più dimesso, sfuggente, silenzioso, fatto di piccoli gesti, ma ugualmente ineluttabile.


Note biografiche sull’autrice

Nata a Forlì nel 1970, dopo il diploma al liceo Classico si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna. Ha svolto un Master in Comunicazione a Roma e Milano, poi un corso di Racconto e Romanzo e uno di sceneggiatura cinematografica alla Scuola Holden di Torino. E’ docente di cinema e letteratura e ha diverse collaborazioni in atto, fra cui quella con Università Aperta di Imola, la libreria Mondadori di Forlì e le scuole medie, per le quali sta portando avanti un progetto didattico che coinvolge i ragazzi delle classi terze in una ‘lezione cinematografica’ sul rapporto umano e formativo che unisce allievo e insegnante. Nell’aprile dello scorso anno è uscito il suo primo libro, edito da CartaCanta, dal titolo ‘I narratori della modernità’, un saggio di letteratura francese dedicato a Balzac, Flaubert, Zola e Maupassant, come quei grandi padri della letteratura che per primi hanno raccontato la nascita del mondo moderno.

Per ArteVitae scrive nella sezione Cinema e TV.


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