15 Gennaio 2018 By Francesco Galletta

La Cappella Contarelli e l’antifinestra di Caravaggio

A volte si può spiegare un concetto partendo dal suo opposto; anche se per farlo, usiamo qui un termine – in verità – del tutto inventato. Per capire il senso della finestra prospettica, guardiamo perciò al suo (impossibile) contrario: l’antifinestra.

Di Francesco Galletta

Michelangelo Merisi, noto al mondo come Caravaggio (1571-1610), alla fine del ‘500 distrugge la finestra prospettica come la poté intendere teoricamente Leon Battista Alberti e come la applicarono variamente pittori come Piero della Francesca, Antonello, i due Lippi, Andrea Mantegna, Perugino, Leonardo o Giovanni Bellini, andando persino oltre Tiziano.

Il genio lombardo demolisce l’intelaiatura prospettica dell’architettura, limitando lo spazio della rappresentazione a pochi livelli visivi, riduce la distanza tra l’osservatore e la scena e spegne le luci, inventando, con nuovi toni e condizioni luministiche mai viste prima nell’arte pittorica, un mondo nuovo e una maniera inedita di rappresentarlo.

Tutto questo è rilevabile nella Cappella Contarelli, in San Luigi dei Francesi a Roma, appartenuta al cardinale Mathieu Cointrel (in italiano Matteo Contarelli), poi in proprietà di Virgilio Crescenzi. Ultima nella navata sinistra ed eseguita fra il 1599 e il 1602, contiene il ciclo di San Matteo, con la Vocazione nella parete di sinistra, l’Ispirazione sopra l’altare e il Martirio a destra.

Posto che qui ci occupiamo di rappresentazione e non di storia dell’arte in senso stretto, ricordiamo che il pannello centrale con l’Ispirazione, eseguito in un primo momento in una versione non gradita alla committenza, fu respinto poiché il Santo era raffigurato nelle fattezze di un contadino (fig. 1). Il quadro, giunto comunque sino al Novecento, rimase distrutto sotto le bombe a Berlino nel 1945.

fig. 1 – Ispirazione, prima versione

La versione definitiva (195×295), seguendo un’iconografia più consona alle richieste del tempo, mostra l’Angelo ispiratore del Vangelo in alto – quasi del tutto avvolto nel mantello che rigira incurvandosi – con Matteo in basso, allo scrittoio, quasi nelle vesti di un dotto (fig. 2).

fig. 2 – Ispirazione di Matteo

Il Santo, rivolgendosi con fatica all’Angelo, dimostra il precario equilibrio delle ginocchia poggiate sullo sgabello instabile. I personaggi emergono con forza dal buio dello sfondo; più Matteo, a dire il vero, per il potente colore dell’abito.

Tra gli oggetti, lo sgabello sporge diretto verso di noi, come pure il Vangelo aggettante dallo scrittoio. Guardando oltre le due figure non si legge, comunque, alcuna profondità nell’ambientazione.

Non può esistere qui il punto principale di un’ipotetica costruzione prospettica, ma c’è sicuramente il punto di vista della scena, coerentemente posto poco sotto la linea dello scrittoio, nella posizione che assume l’occhio centrico dello spettatore che guarda Matteo dal basso, ma ininfluente verso l’Angelo, collocato in perfetto profilo sinistro come se  venisse inquadrato da un’altezza maggiore.

Sul piano della rappresentazione e dell’iconografia, il pannello centrale è il meno interessante, laddove quelli laterali, più grandi e complessi, rinviano a spunti profondi. Ovviamente guardarli insieme, ponendosi poco discosti dall’ingresso della cappella, ma esternamente a essa, non è lo stesso che vederli singolarmente in posizione frontale, cioè dal punto di vista dell’autore.

Nel Martirio (323×343), l’architettura è appena intuibile seppur evidente. Seguendo l’iconografia, l’atto si svolge in una chiesa di cui s’intravede un altare, con una croce sul paliotto e una candela accesa sul piano. Un angelo sovrastante, completamente chino in una complicatissima posizione contorta, offre al Santo la palma del martirio (fig. 3).

fig. 3 – Martirio di Matteo

La quinta architettonica di sinistra è pressoché accennata, mentre massima importanza assume il piano orizzontale occupato dal carnefice in piedi (perfettamente centrale al dipinto) e da Matteo a terra, le due figure protagoniste che raccolgono la profondità dell’intera composizione.

Dalla posizione dei personaggi principali e dal dramma dell’uccisione emergono le linee di forza del dipinto, come fossero frammenti di un ordigno partiti dal punto di esplosione. Oltre ai protagonisti, nell’insieme contiamo altre undici figure, ma ciò non comporta alcun ammassamento o disordine.

A destra, due giovani in primissimo piano sono visti di spalle; uno di loro, seminudo, é seduto, quasi incombente sul “quadro” della rappresentazione. Più indietro, una terza figura, un bambino con la tunica – il più vicino a Matteo – si scosta istintivamente gridando di paura.

A sinistra, sono sette le figure rappresentate. Quella più vicina allo spettatore è decisiva per la definizione della profondità, perché lega il piano visivo dove si svolge l’uccisione, al “quadro” della rappresentazione.

Da una parte le gambe, dall’altra le braccia; non ha importanza capire cosa sia il posto dove l’uomo poggia le mani; offre comunque un piano orizzontale più prossimo all’osservatore.

Sempre a sinistra, oltre al primo, altri quattro personaggi posti su un’ipotetica verticale, misurano le linee di forza del dipinto. Dopo l’uomo disteso, tre volti in successione differiscono tra loro con piccole modifiche dell’inquadratura, mentre il penultimo della serie appare di schiena.

Quattro, su tredici complessive, sono le figure di spalle e ognuna di loro ha un valore ritmico ben definito nell’insieme. Nell’ultimo personaggio in profondità molti critici hanno individuato l’ennesimo autoritratto di Caravaggio (fig. 4).

fig. 4 – Martirio di Matteo; dettaglio: presunto autoritratto di Caravaggio

L’intera composizione è avvolta da una luce abbagliante proveniente da sinistra, che meglio di un’ipotetica costruzione prospettica definisce i piani visivi e il contrapporsi dei personaggi; ombre proprie visibili soprattutto nei protagonisti a sinistra del carnefice, risolti in un tagliente controluce.

Nella Vocazione (322×340), la scena è illuminata in modo diverso: la fonte luminosa, precisamente definita da linee rette, irrompe letteralmente da destra, legandosi al racconto visivo, iconografico ed emotivo imbastito dal pittore (fig. 5).

fig. 5 – Vocazione di Matteo

Dalla direzione della luce emergono Cristo e Pietro, avvolti in tuniche senza tempo, che nel loro gesto direzionale si rivolgono ai cinque personaggi al tavolo, abbigliati invece nei vestiti della loro epoca. Tre sono di fronte, uno chino di profilo; l’ultimo, il più vicino a noi, si torce dalla sua posizione di spalle volgendosi in profilo destro verso le figure sacre.

L’elaborata sedia a sinistra, la panca ortogonale al “quadro” prospettico e il semplice tavolo sono gli unici arredi dell’ambiente. Il punto di vista dell’osservatore – posto che neanche qui si può parlare, in effetti, di punto principale – sta in un “luogo centrico” poco sopra il piano del tavolo, ma sotto le teste dei personaggi, idealmente raccolti lungo una comune linea compositiva orizzontale.

Il dipinto si definisce in due porzioni precise, collaudate da Caravaggio anche in altre composizioni: in basso i personaggi, in alto il muro della parete, in cui è evidenziata, non a caso, una finestra (fig. in testa all’articolo).

La stanza della Vocazione non ha quasi profondità, né piani visivi; tutto è raccolto nell’immediato. Dove inizia il “quadro prospettico”, c’è l’uomo di spalle; subito dopo troviamo il tavolo e gli altri protagonisti; poco oltre, la parete chiude come una quinta teatrale.

La presenza della finestra senza luce, nell’evidente negazione della sua funzione nell’ambito della rappresentazione, può essere presa come esempio di muto simbolismo.

Molto contrastata nelle ombre portate e in leggero scorcio dal basso, irrompe geometrica nella parete, ma i suoi vetri sono oscurati da una patina che può essere polvere o – più semplicemente – una non trasparenza artificiosa, utile per non oltrepassare il piano visivo del muro.

È questa l’antifinestra che cercavamo, ovviamente nel senso metaforico. Caravaggio non ha la necessità di usare gli artifici prospettici di Barthelemy d’Eyck o l’eminentia di Antonello, né le precise coordinate di Piero o, meno ancora, l’illusionismo degli intarsiatori lignei per trascinare personaggi e oggetti da questa parte della cornice, nello spazio dello spettatore.

La mancanza di luce e di profondità nella nostra antifinestra, si lega però anche all’illuminazione dei tre dipinti, di certo pensata da Caravaggio in funzione di quella naturale della cappella, proveniente dall’unica fonte luminosa posta sopra l’altare dell’Ispirazione (fig. 6).

fig. 6 – Vista d’insieme dall’esterno della Cappella Contarelli

Pertanto, nella Vocazione la luce viene da destra e nel Martirio da sinistra. Nel pannello centrale è evidentemente zenitale e, forse, anche per questo lascia poco spazio alla profondità.

In verità, rispetto alle opere degli artisti che lo precedettero, nei dipinti di Caravaggio, oltre alla profondità, scompare anche il senso della cornice o del paesaggio oltre le finestre, non più “quadri nel quadro”.

I personaggi appaiono, invece, partecipi dello spazio dell’osservatore come sagome instabili, tenute a stento dentro la codifica pittorica, fulminate nell’attimo stesso in cui esprimono il loro dramma.

Contorti, vibranti, spesso di spalle, quei modelli di varia umanità scattano su di noi o sono pronti ad accoglierci fisicamente nella loro vita parallela, nel preciso istante scelto dal loro creatore.

Caravaggio, distruggendo per sempre la finestra albertiana mette, di fatto, una pietra tombale sulle ultime ceneri del Rinascimento e modifica il tempo narrativo delle rappresentazioni.

La sua pennellata spot-light ritagliata alla scala umana, cristallizza l’attimo, un brandello sfrangiato dell’esistenza, l’unico appiglio possibile alla vita; la sua, prima di tutto; sempre presente nelle opere e trasfigurata nei gesti, nelle pulsioni e nelle facce dei suoi personaggi.