25 Ottobre 2017 By Luigi Coluccia

Kouam, la fotografia di Cristiano Zingale

In copertina oggi c’è Cristiano Zingale. Nel consueto appuntamento dedicato all’approfondimento dei nostri autori, ne racconteremo la storia e la fotografia.

di Luigi Coluccia

Cristiano nasce in Sicilia nel 1978 in un paesino di montagna, Troina, “perché in Sicilia non c’è solo il mare!” – come tiene subito a specificare. Studia ingegneria a Catania e finiti gli studi, per motivi di lavoro passa un anno in Congo e due in Nigeria. Finita l’esperienza all’estero si trasferisce a Milano, dove vive da poco più di 2 anni.

Conosco Cristiano da diverso tempo, sono sempre rimasto affascinato dalla naturalezza con la quale riesce a passare da un genere fotografico all’altro, mantenendo sempre un livello qualitativo molto elevato. Trasmette attraverso ogni suo scatto, il suo grande talento, la sua capacità di arrivare dritto al cuore.

Da tanti anni, più precisamente dal suo primo viaggio in Costa d’Avorio fatto quando era poco più che ventenne, lo accompagna un nome di battesimo che gli è stato dato in quell’occasione dalla tribù dei Baulè, Kouam. E’ talmente legato a questo nickname, da farne il nome del suo sito e della sua pagina Facebook, lo accompagna ovunque.

AVB: Cristiano, anzitutto grazie per aver accettato il nostro invito a raccontarti. Siamo davvero felici di ospitarti, questo ci dà il modo di approfondire i tuoi lavori e la tua visione della fotografia. Siamo certi che i nostri lettori apprezzeranno molto.

CZ: Grazie a voi, per me è un onore oltre che un gran piacere.

AVB: Come ti sei avvicinato alla fotografia, chi o cosa ti ha trasmesso l’amore per questa forma d’espressione in così forte espansione oggi?

CZ: C’è stato un episodio che per me ha rappresentato la vera e propria scintilla di questo amore, che ha sancito l’accensione di quello che per me è il fuoco che alimenta la mia passione. Era il 2009 e inaspettatamente ricevo una telefonata dalla redazione del National Geographic. Avevo partecipato al contest che annualmente la rivista organizzava per i suoi lettori e mi chiedevano la concessione dell’autorizzazione, per la pubblicazione sul loro sito, di una mia foto che era stata selezionata.

AVB: Quindi possiamo ipotizzare un qualcosa di simile a ciò che succede al protagonista del film “Il curioso caso di Benjamin Button”, in cui le lancette che scandiscono il tempo, correndo a ritroso, ti hanno permesso di partire da quello che normalmente è un punto d’arrivo

CZ: In parte sì, è così! Ovviamente facevo i salti di gioia, ma pensate che si trattava di una foto scattata con una semplice “compattina” due anni prima, quando non conoscevo niente di tecnica fotografica, avevo solo partecipato per gioco. Ancora oggi penso che il soggetto ritratto, una cavalletta malgascia del genere Phymateus, grande quanto una mano, non avesse niente di particolare dal punto di vista fotografico, ma evidentemente per l’autorevole rivista era decisamente interessante dal punto di vista scientifico.

AVB: Cosa rappresenta per te la fotografia?

CZ: Questa è la domanda che penso quasi tutti vorrebbero evitare per non incorrere in citazioni di famosi fotografi, aforismi, luoghi comuni. E’ impossibile infatti essere esaustivi ed il rischio di essere banali è altissimo. Se proprio devo rispondere ti direi che la fotografia per me rappresenta la possibilità di comunicare, raccontare, mostrare e rendere concreto, tangibile, quell’attimo che altrimenti sarebbe depositato solamente nella mia mente e nei miei ricordi. Me la sono cavata bene?

AVB: Benissimo, oltre ogni più rosea aspettativa direi! Hai cominciato allora quasi per caso, con una foto scattata con una compattina. Immagino però che la soddisfazione che ti ha dato, abbia poi acceso in te la voglia di approfondire lo studio della fotografia. Come è poi proseguito quindi il tuo percorso fotografico?

CZ: Sì, in effetti quell’episodio mi ha poi spinto a dotarmi di un mezzo tecnico più adeguato, ho acquistato infatti nell’estate del 2009 la mia prima reflex, una Nikon D60. Mi sono successivamente iscritto a dei corsi di fotografia e reportage, che oltre ad alimentare la mia passione, mi hanno fatto crescere moltissimo. Attualmente sono socio del Circolo Fotografico Milanese.

AVB: Ci hai parlato dei tuoi studi in ingegneria, poi dei tuoi anni passati per lavoro all’estero. Quanto hanno influito quindi i tuoi studi e la tua professione nello sviluppo della tua passione per la fotografia?

CZ: Indubbiamente l’ambiente “asettico” dell’ingegneria ha contribuito poco alla conoscenza di questo fantastico mondo che è la fotografia. Sicuramente sono stati più incisivi i rullini da sviluppare che mio padre tiene nel frigorifero da qualche decina di anni, la camera oscura in mansarda dai miei e due cassetti pieni zeppi di foto che solo negli ultimi anni sono stati pazientemente messi in ordine negli album da mia madre.

Invece il lavoro in Nigeria, non potendo mai uscire per ragioni di sicurezza, mi ha permesso di avere più tempo del solito per potermi dedicare alla fotografia. Ho realizzato diverse fotografie in quel periodo che riprendevano scene di vita della base in cui lavoravo, quella di Port Harcourt. Una di queste fotografie mi è stata richiesta per una rivista del Consiglio Atlantico di Washington e molte altre sono state usate da siti e riviste di settore.

Selezionata dal Consiglio Atlantico

AVB: So che oltre a scattare delle bellissime fotografie ritraenti la vita della Base, hai anche realizzato due progetti fotografici, sfociati in altrettanti calendari benefici per un orfanotrofio proprio di Port Harcourt. Vuoi raccontarci questa bellissima esperienza?

CZ: Certamente, il primo è stato “Inside Other Dress” – realizzato con Ettore Lattuada e la grafica di Fabio Lo Cascio – ed è partito da un detto popolare del luogo che recita: “prima di giudicare una persona cammina per tre lune nei suoi mocassini”. Protagonisti del progetto sono state delle coppie italo-nigeriane di mie colleghi che si sono messi letteralmente gli uni nei panni degli altri.

Il secondo invece “I Want To Be” ha visto come protagonisti gli stessi bambini dell’orfanotrofio, che hanno posato davanti all’obiettivo impersonificando le varie professioni che avrebbero voluto ricoprire una volta adulti. E’ stata un’esperienza incredibile, per loro e per me. All’interno dei vari set allestiti infatti, hanno vissuto una giornata come quelle che i loro coetanei più fortunati passano nei grandi parchi giochi e sono sicuro che non la dimenticheranno per un bel po’. Per me indubbiamente è stata una grande soddisfazione: ero riuscito a fare qualcosa di utile per gli altri, lasciando in loro un piacevole ricordo, tutto grazie alla mia grande passione per la fotografia.

AVB: La tua oggi è essenzialmente una fotografia di viaggio. Una fotografia documentarista, di reportage. Quanto è importante per te viaggiare, scoprire e come l’arricchimento che inevitabilmente trai da queste tue esperienze influisce poi nei tuoi lavori fotografici? Se le nostre fotografie rispecchiano quello che abbiamo letto e quello che abbiamo vissuto, in che modo sono invece legate a ciò che abbiamo provato durante i nostri viaggi?

CZ: Ho la fortuna di poter viaggiare molto, da solo o come coordinatore con Viaggi e Avventure nel Mondo. Indubbiamente il binomio viaggio-fotografia è quanto di più naturale ci possa essere.  Amo ripetere sempre che: “il turista cerca quello che non trova, il viaggiatore trova quello che non cerca” e fotograficamente penso valga spesso lo stesso concetto.

L’anno scorso nella valle dell’Omo River in Etiopia, dove le foto fatte alle tribù sono molto comuni, ho deciso in assoluta controtendenza, di non fotografare ma di voler “conoscere” prima le persone. All’improvviso dopo aver girato fra le capanne ed aver parlato con i loro occupanti, il capo tribù mi ha fatto capire a gesti, che se gli avessi ceduto la mia Nikon D750, avrebbe lui fatto delle foto a me. Dopo un primo momento di titubanza, l’avevo infatti acquistata da poco, gli dissi di sì. Non sono degli scatti composti secondo le indicazioni presenti nel libro “L’occhio del Fotografo” di Freeman ma per me hanno un grandissimo valore affettivo.

Etiopia, Omo river

Per concludere, le fotografie rimarranno indissolubilmente legate alle emozioni provate in un viaggio, saranno lì a testimoniare ogni singola emozione, scandendo il tempo stesso che abbiamo passato nei luoghi visitati. Non esiste fotografia senza emozione.

AVB: Le tue fotografie sono caratterizzate da un forte impatto emozionale. Sono il frutto inevitabile della tua profonda sensibilità. Come nasce un tuo scatto, come prepari i tuoi viaggi dal punto di vista fotografico?

CZ: Prima di ogni viaggio mi documento sempre sui luoghi più interessanti in cui poter fotografare, ma quello che assolutamente cerco di evitare è di realizzare immagini simili a quelle che spesso e volentieri si vedono di certi luoghi, quasi fossero degli stereotipi da cui non si può prescindere.

Proprio per questo motivo ritengo che i miei scatti più interessanti alla fine sono quelli realizzati in luoghi che in cui non avevo preventivato di fotografare. Sono quelli che ti sorprendono, che ti ritrovi davanti grazie anche ad un pizzico di fortuna, ma anche di curiosità e intraprendenza.

Non scatto in maniera compulsiva, ultimamente ho imparato a selezionare ciò che voglio fotografare, ci sono delle inquadrature ad esempio che adoro più di altre. Per esempio preferisco immortalare una persona di spalle piuttosto che un paesaggio, fotografare una mano impegnata in un’azione che non la vegetazione di un luogo. Di sicuro cerco l’essere umano in ogni scena e adoro il bianco e nero.

AVB: Sei un autore che si cimenta in più generi fotografici, ma abbiamo avuto modo di notare con piacere che ultimamente ti cimenti anche nella fotografia d’architettura? Cosa ti attrae in questo genere?

CZ: La risposta a questa domanda è semplicissima, è merito tuo e di ArchiMinimal! So che può sembrare un messaggio promozionale ma non lo è affatto. A dire il vero era un genere fotografico che non avevo mai considerato, forse perché le mete dei miei viaggi si prestano poco ad esso. Prima ancora della fotografia d’architettura ero rimasto particolarmente colpito da quella minimalista e in particolare dalla fotografia di Paolo Luxardo, trovato casualmente su Flickr.

Poi in concomitanza della nascita del tuo gruppo ArchiMinimal Photography, mi sono ritrovato a Berlino e Parigi. Credo siano due città che si prestano molto a questo genere, per cui mi ci sono cimentato, contaminato da voi. Ormai ovunque sono, con o senza macchina fotografica, osservo “archiminimalisticamente” la realtà che mi circonda, tanto che la mia ragazza mi prende in giro, per fortuna bonariamente. E’ lei infatti la mia prima supporter.

AVB: Di quali strumenti tecnici ti avvali, tipo di macchina fotografica, obiettivi e di quali software per la post produzione?

CZ: Al momento ho due corpi macchina, una Nikon D750 e una Nikon D7000, le lenti che uso principalmente sono un 35-70 f 2.8, regalatomi gentilmente da un amico, e un 80-400. Ho altre lenti, ma vado molto a periodi e soprattutto basandomi sui luoghi in cui scatto. Per il software, invece mi avvalgo di Lightroom, ogni tanto accompagnato dalle Nik Collections. Photoshop? Forse è una pecca ma a dirti la verità non l’ho mai installato, anzi forse solo una volta in occasione di un corso che avevo seguito.

AVB: Hai nel breve periodo dei progetti fotografici di cui ti stai occupando o che vorresti mettere a punto?

CZ: Progetti? Tantissimi! Attualmente una serie di ritratti dei miei viaggi sono stati selezionati per la rassegna Altri Mondi 2017 e verranno esposti tra novembre e dicembre presso la Biblioteca di Crescenzago. A fine gennaio invece esporrò il primo capitolo di un mio progetto, sempre a Milano. Al momento posso dirti solo che sarà incentrato sulla valorizzazione di un tipo di inquadratura in un determinato contesto, ma non vorrei sbilanciarmi tanto.

AVB: Per finire, si percepisce nel tuo lavoro e nelle tue parole molta passione per ciò che fai, cosa ti sentiresti di suggerire a coloro che inesperti vogliano approcciare la fotografia? Cosa ti ha insegnato la tua esperienza?

CZ: Sarà un luogo comune e una frase fatta, ma suggerirei loro di essere testoni, folli e di coltivare sempre la voglia di sperimentare. A titolo di esempio voglio raccontarti un aneddoto.  Due anni fa partecipai, invitato da un amico, ad un concorso fotografico abbinato al Carnevale di Fano, il presidente della giuria era il grande Gianni Berengo Gardin!

Per partecipare però, serviva la liberatoria del soggetto ritratto, nella fattispecie una ragazza che io non conoscevo.  Cominciai così una ricerca degna dei migliori stalker. Trovati i carri partecipanti iscritti al carnevale, contattai chi aveva realizzato quello su cui era la ragazza che cercavo. Quest’ultimo mi mise in contatto a sua volta con la responsabile del corpo di ballo del carnevale, che a sua volta mi mise in contatto con i genitori della ragazza, che scoprii essere minorenne, i quali mi diedero finalmente il consenso alla pubblicazione della foto.

Carnevale di Fano 2016 – Terza Classificata

Nel frattempo feci pure vedere lo scatto che mi piaceva tanto al corso di reportage che frequentavo, sentendomi sentenziare che non valeva la pena neanche mandarlo! Ovviamente da buon testone/terrone inviai lo stesso la mia foto.

Come nelle migliori favole, un venerdì sera di febbraio, ricevetti una telefonata che mi comunicava che avevo vinto il terzo premio del Concorso Fotografico Nazionale Carnevale di Fano 2016 e che il premio mi sarebbe stato consegnato da Berengo Gardin in persona. Ovviamente mi ritrovavo a Milano e con così poco preavviso mi è stato impossibile presenziare alla premiazione. Per questo, se posso dare un consiglio, direi: SIATE TESTONI!!

AVB: Cristiano, non ci resta che ringraziarti per la gentile concessione di questa intervista. Non è sempre facile parlare di sé e dei propri lavori, per cui apprezziamo molto la tua disponibilità.

CZGrazie a voi dell’opportunità concessami. Alla fine di questa amabile chiacchierata, permettetemi di salutare gli amici di ArteVitae, arrivederci.

Riferimenti dell’autore: 

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