19 Settembre 2018 By Luigi Coluccia

Digressioni sulla fotografia, a tu per tu con Stefano Degli Esposti.

Per la rubrica Digressioni sulla fotografia, curata da Luigi Coluccia, in copertina oggi c’è Stefano Degli Esposti. Nel consueto appuntamento dedicato all’approfondimento dei nostri autori, ne racconteremo la storia e la fotografia.

di Luigi Coluccia

La rubrica Digressioni sulla fotografia, dedicata alla storia personale, alla fotografia e al pensiero dei nostri autori torna oggi dopo un lungo periodo di pausa. Nel tempo mi sono infatti reso conto di quanto stesse prosciugando le mie energie scrivere le storie delle persone ospitate in questo spazio, facendole mie, vivendole così intensamente: avevo insomma bisogno di ricaricarmi per essere pronto a cogliere ogni sfumatura dei protagonisti di questa rubrica.  Ritorno oggi, ancora una volta a raccontare per voi uno dei nostri migliori autori, Stefano Degli Esposti.

Dirigente di azienda, 60 anni, appassionato di fotografia fin dall’adolescenza, Stefano è praticamente un’autodidatta, come spesso abbiamo avuto modo di riscontrare per i tanti autori protagonisti di questa rubrica. Solo recentemente ha frequentato due corsi di fotografia digitale per focalizzare meglio alcuni fondamentali tecnici.

Inizia ad esporre i  suoi lavori nel 2015. Le mostre più importanti cui partecipa sono il MIA Photo Fair di Milano edizione 2017, condividendo la partecipazione con altri autori, e il Photofestival di Milano edizione 2018 con una mostra personale questa volta, “IdentiCity”, curata dalla galleria Made4Art di Milano.

In occasione di questa rassegna, una sua opera, “Windowntown Remake”, viene selezionata insieme ad altre due, per la locandina ufficiale.

©Stefano Degli Esposti

Nel 2017 inoltre, aveva già allestito la sua seconda personale “Architexture” a Novellara presso il museo della Rocca Gonzaga, curata da Francesca Baboni.

LC: Stefano, grazie per aver accettato il mio invito a raccontarti. Considero questo come sempre un graditissimo omaggio, un privilegio di cui godere. Era già da un po’ di tempo che sentivo il desiderio di approfondire la tua conoscenza, i tuoi lavori e la tua visione sul mondo della fotografia. Sono certo che anche i nostri lettori apprezzeranno molto.

SDE: Grazie a te, a voi. Per me è un grande piacere essere qui. Spero solo di essere all’altezza delle vostre aspettative! 

LC: Ne sono certo! Come comincia il tuo rapporto con la fotografia? Da dove arriva questa passione? Quale è stato l’evento che l’ha scatenata? Quando è successo?

SDE: Il mio rapporto con il mondo della fotografia, è essenzialmente legato ai miei viaggi. La passione vera e propria però è esplosa solo sette anni fa, in coincidenza con il mio trasferimento in collina, che mi ha permesso di scattare quasi quotidianamente, grazie all’abbondanza di scenari paesaggistici. Lo sviluppo di alcuni progetti che mi hanno dato grande soddisfazione poi ha accresciuto la mia consapevolezza, trasformandomi nel maggior appassionato del mio lavoro.

LC: La fotografia è un linguaggio universale che può evocare, suggerire, spingere oltre. Spesso è scoperta e sperimentazione. Qual è la tua posizione in merito?

SDE: Condivido. Mi piace sperimentare in genere e la fotografia mi permette senza dubbio di farlo, ma mi permette anche analisi introspettive altrimenti difficili per me. Concepisco la fotografia come un’arte non vincolata alle regole. Non mi concentro mai troppo sugli aspetti tecnici, che costituiscono solo il mezzo, per quanto importante, che mi consente di ottenere un risultato che ha lo scopo di suscitare emozione.

LC: Da  questa tua risposta deduco quindi che ti piace suscitare emozione in chi entra in contatto con la tua fotografia, ti piace approfondire attraverso di essa la conoscenza del tuo sentire, del tuo essere. Cosa rappresenta allora per te la fotografia?

SDE: La fotografia per me è  “l’immaginazione della realtà”. Ovvero, la creazione di una immagine che, partendo dalla realtà – una sorta di “materia prima” – viene elaborata attraverso un “processo sentimentale”, che a sua volta la porta ad essere in sintonia con la mia visione. Pertanto essa rappresenta un momento di elevata creatività, che non si esaurisce con lo scatto, ma prosegue con la post produzione che ha lo scopo di allineare il “prodotto finito” al mio “sentire”.

Leggendo i lavori di Stefano, in particolare Citypatchworks e Citypatterns il mio pensiero è andato immediatamente ai disegni relativi alla “Città nuova”, esposti nel 1914 dall’Architetto Antonio Sant’Elia, che costituiscono la nascita del tema della città futura. Disegni fondamentali e fonte inesauribile sia per la successiva architettura che per la cinematografia.  Non a caso infatti una delle serie più famose di fotomontaggi-collage del 1923 di Paul Citroen – allievo del Bauhaus e di Raoul Hausmann – è dedicata alla città futura e si intitola Metropolis: una “città che sale”, come stratificata, composta dalla sovrapposizione infinita di edifici, strade, gallerie, viadotti e torri.

Da sempre attratto dallo stretto rapporto e dalla commistione esistente fra architettura e cinematografia, è proprio il lavoro di Citroen che spesso mi è tornato alla mente contemplando la fotografia di Stefano del quale apprezzo quella sua innata capacità di raccontare le città, moderne giungle urbane, attraverso una rappresentazione globale dei volumi, che predilige la stratificazione degli elementi, a svantaggio dello spazio e della prospettiva.

LC: Stefano, i tuoi progetti più significativi hanno come soggetto l’ambiente urbano, in particolare appunto quello del 2013 realizzato nell’area metropolitana di New York “Citypatterns”, tessuti urbani omogenei fatti di linee, colori e forme e quello del 2017 che credo sia l’evoluzione del primo, “Citypatchworks”, un collage di scatti che ritraggono singoli elementi urbani. Puoi parlarcene?

SDE: La mia rappresentazione dell’ambiente urbano è un mix fra estetismo ed investigazione storica, poiché passa dalla composizione di tessuti omogenei tipici di “Citypatterns” agli assemblaggi del lavoro “Citypatchworks” nel quale si possono leggere, oltre alle modalità di costruzione, anche l’indole e l’intento di chi le ha costruite. Non è un caso che l’elemento più ricorrente di quest’ultime composizioni sia la finestra, ovvero l’ equivalente dell’occhio che dona l’espressione al viso.

La differente dimensione dei tasselli e la loro disposizione conferisce un effetto tridimensionale all’immagine complessiva, tale da farla apparire quasi tangibile. Si tratta comunque di un’osservazione del particolare, della ricerca del dettaglio, anche nelle inquadrature più allargate, poiché la mancanza dello spazio e della prospettiva, come hai acutamente osservato, decontestualizza il soggetto e regala all’immagine una “identità propria”, pur riportando elementi di facile identificazione del suo ambientamento.

LC: Ritroviamo spesso nella fotografia d’architettura il concetto di studio e  rappresentazione del dettaglio. Esso è parte costitutiva dell’insieme e concorre in modo significativo alla determinazione del carattere dell’edificio. In tal caso il rilievo di dettaglio, provvede a restituire dei particolari accorgimenti che in molti casi concorrono in modo determinante a definire l’ambito linguistico del manufatto. Quanto pensi sia importante la rappresentazione del dettaglio rispetto alla riproposizione fedele dell’intero edificio e del suo carattere architettonico?

SDE: La mia inclinazione verso l’astrattismo spesso mi allontana inconsapevolmente dalla realtà. Anzi, maggiore è la distanza dall’evidenza e più l’immagine è percepita da me come una mia creatura. Questo processo continua anche nella fase di post produzione che mi avvicina il più possibile all’immagine che ho “sentito”, creando un parallelismo tra osservazione-immaginazione e realtà-astrazione.

LC: Da quali grandi autori della fotografia o del mondo della pittura hai tratto ispirazione per realizzare i tuoi lavori fotografici?

SDE: Essendo un istintivo ed un autodidatta, confesso di non essermi mai ispirato a nessuno. Spesso mi è capitato però di venire accostato a Maestri del calibro di Fontana, per il minimalismo applicato alla paesaggistica; ad Escher, per le forme astratte realizzate con le fotografie d’architetture e infine a Mondrian, per il layout dei “Citypatchworks”. Nel mondo della pittura sono sempre stato un grande ammiratore dell’impressionismo, qui mi viene in mente Van Gogh su tutti, per la libertà di interpretazione e l’impatto emotivo della sua opera. Apprezzo molto anche il cubismo e il dadaismo.

LC: La fotografia che prediligi quindi è essenzialmente quella di architettura urbana. Cosa ti attrae in questi generi?

SDE: La mia principale caratteristica è quella di creare istantaneamente un lavoro, spesso immaginandone il risultato finale, post produzione compresa. L’architettura è l’ambiente più fertile per le mie astrazioni, anche se la mia attitudine mi conduce spesso verso l’interpretazione e la figurazione anche in altri ambienti. Mi attrae per la possibilità di esaltare la mia creatività.

LC: Già, il tuo amore per l’astrattismo. Mi viene in mente quello legato all’architettura,”Harpatecture”, ma anche un altro,”Fantascape”, dove l’astrattismo viene applicato ad un ambiente non riconducibile all’architettura. Ce ne vuoi parlare?

SDE: Certo, nel 2016 ho realizzato due progetti di puro astrattismo. “Fantascape”, applicato alla paesaggistica aerea: il progetto consta di una quarantina di “visioni” di animali, personaggi e piante, riprese in volo sul  Desierto de los Monegros in Spagna. Gente di Fotografia ne ha pubblicato una recensione nel numero 68 del 2017.

Per l’astrattismo in architettura poi c’è “Harpatecture”, realizzato presso Harpa, palazzo della cultura islandese a Rejkyavik, in cui forme e colori evocano immagini di gioielli.

In uno dei pezzi che ho scritto proprio su ArteVitae qualche tempo fa, mi riferisco a quello dedicato al fotografo Statunitense Adrian Gaut, mettevo in evidenza la sua innata capacità, davvero sublime, di riprendere “l’anima” dei soggetti architettonici riportati nelle sue immagini.

Della fotografia d’architettura Adrian Gaut dice: “Si ha la sensazione di scoprire sempre qualcosa, non si sa mai cosa ci sia dietro l’angolo.”

Una vera e propria “danza” di dettagli, unita ad un minimalismo cromatico e geometrico molto accattivante, sono gli elementi caratteristici della sua fotografia. Nella fotografia di Stefano ritrovo proprio gli stessi elementi distintivi.

LC: Stefano, ti trovi in sintonia con questi concetti e pensieri?

SDE: Concordo con quanto scrivi e riporti e mi sono anche riconosciuto in molte delle opere di Gaut, che non conoscevo. Mi permetto di aggiungere che la scoperta di aspetti e visioni da osservazioni di dettagli è come un viaggio introspettivo, una esplorazione dei propri sentimenti e delle proprie emozioni.

LC: Di quali strumenti tecnici ti avvali per realizzare i tuoi lavori?

SDE: Utilizzo solo macchine e software Nikon: una D610 che uso per lunghezze focali brevi, che associo a un 8-15mm e a un 16-35mm; una D7200 per le lunghezze focali lunghe, che associo a un 70-300mm. La doppia camera mi è indispensabile per l’immediatezza di ripresa durante visite o per catturare espressioni o posture/movimenti irripetibili. Possiedo anche una D90, che per certi aspetti da ancora molto filo da torcere alla D7200. Come software di post produzione uso in prima battuta Capture NXD-D per sviluppare i file Raw e le finiture o viraggi, qualora necessari, in ultimo Photoshop.

LC: Per finire, si percepisce nel tuo lavoro e nelle tue parole molta passione per ciò che fai, cosa ti sentiresti di suggerire a coloro che inesperti vogliano approcciare la fotografia? Cosa ti ha insegnato la tua esperienza?

SDE: È difficile dare consigli, perché andrebbero personalizzati a seconda delle attitudini personali dei destinatari. La sola cosa che mi sento di suggerire è di proseguire nel proprio stile e nelle proprie convinzioni senza lasciarsi influenzare dalle tendenze. Osservare gli altri può essere utile per scoprire proprie attitudini sconosciute, senza però correre il rischio di spersonalizzarsi. La mia maturazione si è compiuta il giorno in cui mi sono innamorato del mio lavoro.

LC: Stefano, desidero ringraziarti perché oltre al piacere di avere ospite un’autore che ammiro molto, ho avuto modo di conoscere meglio un modo di lavorare che apprezzo molto. E’ stata davvero stimolante questa chiacchierata, grazie anche per la disponibilità, per la franchezza e per tutte le emozioni che ci hai saputo regalare.

SDE: Grazie a voi, per avermi dato l’opportunità di raccontarmi, la condivisione è per me fondamentale quanto lo studio. Un saluto a tutti gli amici di ArteVitae. 

Riferimenti dell’autore

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[Ndr]: Tutte le immagini contenute in questo articolo sono coperte dal diritto d’autore e sono state gentilmente concesse da Stefano Degli Esposti © ad ArteVitae per la realizzazione di quest’articolo.


Note biografiche sull’Autore

Gigi, salentino di nascita e romano d’adozione, intraprende il percorso di laurea in Economia Bancaria e successivamente abbraccia la carriera militare. Alterna la passione per l’economia e la letteratura, ereditata dal nonno, a quella per la fotografia che coltiva da tempo, applicandosi in diversi generi fotografici, prima di approdare alla fotografia di architettura e minimalismo urbano in cui trova espressione la sua vena creativa. 

Dotato di personalità votata alla concretezza e con uno spiccato orientamento alla cultura del fare,  Gigi intuisce le potenzialità aggreganti della fotografia unite alla possibilità di condivisione offerte dal Social e fonda il Gruppo ArchiMinimal Photography attraverso il quale riesce a catalizzare l’attenzione di tanti utenti italiani e stranieri attorno ad progetto di più ampio respiro che aggrega una nutrita comunità attiva di foto-amatori. Impegnato nella promozione e nella divulgazione della cultura fotografica, crea il magazine ArteVitae, progetto editoriale derivato dal successo della community social, per il quale scrive monografie ed approfondimenti sugli autori fotografici e cura la rubrica Digressioni sulla Fotografia, ricercando nel panorama fotografico contemporaneo,  personaggi e spunti di interesse di cui parlare.