I luoghi fotografici di Bruno Panieri.
Per la rubrica Digressioni sulla fotografia, curata da Luigi Coluccia, in copertina oggi c’è Bruno Panieri con i suoi luoghi fotografici. Nel consueto appuntamento dedicato all’approfondimento dei lavori dei nostri autori, ne racconteremo la storia e la fotografia.
di Luigi Coluccia
Bruno nasce a Roma nel 1962, città in cui ha sempre vissuto, anche se ama molto viaggiare, in special modo con il treno. È laureato in legge ed ha un curriculum professionale che ha davvero poco a che vedere con la fotografia. Dal 1990 lavora in una organizzazione di rappresentanza della quale è Direttore delle Politiche Economiche.
La fotografia è, per me, una importante passione che mi aiuta anche ad affrontare meglio quelle piccole grandi difficoltà della vita di tutti i giorni. Ha il potere di farmi staccare completamente dalla mia quotidianità. Quando fotografo sono totalmente assorbito e concentrato al punto che riesco a recuperare la mia dimensione più intima.
Per carattere Bruno, come ama ripetere, approccia la vita come un “apprendista stregone”: è cioè molto curioso e gli piace molto provare a sperimentare nuove cose, è persona decisamente eclettica. Nella fotografia, ciò si traduce nella sperimentazione continua di ogni genere, anche se ovviamente ha ben chiare le sue preferenze.
Mi manca ancora, a dire il vero, la pratica del ritratto, ma conto di dedicarmi anche a questo prima o poi.
Bruno mi raccontava che nel suo lavoro di progetti ne realizza tanti e il suo ruolo di responsabilità lo porta continuamente a sviluppare idee sempre nuove e a scrivere molto. Al contrario invece, in fotografia mostre e pubblicazioni lo hanno interessato sempre poco, anche perché non ha sufficiente tempo per dedicarsi con l’impegno necessario.
BP: Penso che quando ci si propone in modo finalizzato, bisogna farlo con attenzione e rigore. Mi è comunque capitato negli ultimi tempi di proporre in giro i miei lavori e spero di averlo fatto con la serietà necessaria per essere apprezzato da chi ha potuto vederli esposti.
LC: Dalla professione agli interessi personali passando attraverso le grandi passioni. Quanto hanno influito la tua formazione e professione nello sviluppo delle tue passioni artistiche?
BP: Direi che è il contrario: sono le mie passioni che mi hanno sempre aiutato molto nella professione. In gioventù sono stato anche un musicista jazz, sempre da “dilettante” e questo mi ha aiutato molto nella vita lavorativa a sviluppare quell’approccio creativo spesso indispensabile e la capacità di adattarsi immediatamente alle diverse situazioni, come sa bene chi conosce le tecniche dell’improvvisazione jazz. La fotografia infine mi ha aiutato a vedere il mondo per immagini e questo è molto importante, perché sviluppa la capacità di previsualizzare immediatamente le situazioni future e nel mio lavoro anche questo è molto importante.
LC: Qual è il tuo rapporto con la fotografia, come si è determinato e come è mutato nel corso degli anni?
BP: Non sono un fotografo professionista. Se dovessi definire con una parola il mio rapporto con la fotografia, direi che “dilettante” sarebbe la parola giusta, quella in cui mi riconoscerei di più, dando a questa parola però, il significato proprio ed autentico quello cioè di “colui che si diletta“. Mi sono riavvicinato alla fotografia dopo essermene allontanato per alcuni anni, è una delle tante passioni di gioventù, accanto alla lettura e alla musica jazz come detto. È stato il digitale a permettermi di ricominciare, soprattutto perché mi ha consentito di superare la mia pigrizia relativa alle fasi di sviluppo dei rullini in camera oscura, a suo tempo ricavata, come per molti, nel bagno di casa.
LC: Come sempre mi accade quando cerco di entrare in connessione con un artista, con una personalità, cerco di sfruttare la rete per documentarmi. Ci sono diversi aspetti di te che hanno destato la mia curiosità ed il mio interesse e cercherò di affrontarli tutti in questa chiacchierata. Partiamo però dal primo: ho letto che la fotografia che apprezzi di più è quella del cosiddetto umanesimo fotografico che si rifà al neorealismo dei grandi della storia della fotografia. Puoi approfondire meglio questo tuo pensiero?
BP: All’inizio il digitale mi ha dato l’idea di un ambito sconfinato di sperimentazione, ma in seguito, vedendo e rivedendo i miei primi scatti, giusto il tempo di maturare qualche convinzione in più sulla fotografia liquida del nostro tempo, ho capito meglio la fotografia che apprezzo più di ogni altra: quella che, dovendola datare, riesco a ricondurre al cosiddetto umanesimo fotografico e al neorealismo dei grandi della nostra fotografia.
La cosa che mi interessa di più in fotografia è ritrovare la sua dimensione documentaristica. Con la fotografia si imparano molte cose sull’uomo e sul suo modo di rappresentarsi ed essere rappresentato. Ho fondato, con quattro amici fotografi: Diego Bardone, Roberto Pireddu, Stefano Pia e Roberto Ramirez, un gruppo, gli Strippers, che ha cercato di ridare un significato alla fotografia di strada, fuori dagli stereotipi che oggi definiscono la Street Photography. Abbiamo stilato anche un nostro manifesto, consultabile sul nostro sito, che ci rappresenta e che afferma il nostro interesse principale verso l’uomo in tutte le sue dimensioni.
Ecco, quel manifesto rappresenta molto bene il mio interesse per la fotografia umanista. Amo molto riguardare le fotografie nelle quali sono ritratti dei luoghi così come erano e ritrovarci anche alcuni miei luoghi della memoria.
Durante una interessantissima chiacchierata che ho avuto il privilegio di avere a margine del suo intervento al Semplicemente Fotografare Live del settembre scorso, con il Maestro Uliano Lucas, quest’ultimo affermava che la fotografia del ‘900, nelle sue molteplici evoluzioni, ha sempre tenuto conto del suo passato. I giovani fotografi erano instradati dai vecchi, che fornivano loro i titoli dei libri “giusti” da leggere e i “giusti” luoghi da frequentare.
A partire dagli anni ’90 invece, è come se si fosse registrato un corto circuito fra vecchio e nuovo, che ha come interrotto ogni rapporto tra ciò che era stato e ciò che era. La fotografia moderna aveva dimenticato tutto ciò che l’aveva preceduta. Nel caso di Bruno Panieri mi sembra di capire invece che il suo rapporto con una certa fotografia sia molto forte e radicato, che il suo modo di essere artista dipende in gran parte proprio da uno studio approfondito di certe dinamiche e di certe nozioni storiche.
LC: Bruno, come spiegheresti quindi quella che potrebbe apparire, ad una prima analisi, come una controtendenza e quanto ritieni invece che sia importante e perché, interrompere questo corto circuito, sempre che tu senta che questa affermazione sia condivisibile, a vantaggio di un salutare ricongiungimento della fotografia moderna con la sua storia?
BP: Io credo che bisogna essere figli del proprio tempo, non mi è mai piaciuto molto quel costume che porta molti a rievocare quelli andati come i “tempi belli”. Penso che le cose mutino, non sono mai migliori o peggiori di prima, semplicemente si evolvono. Oggi è molto cambiato il modo di fruire le immagini e la nostra cosiddetta “società liquida” ci ha proiettato in una dimensione consumistica che non è necessariamente una connotazione negativa, ma soltanto una rappresentazione della realtà che ci circonda.
Siamo bombardati dalle immagini ed è diventato molto compulsivo ed approssimativo il nostro modo di guardarle, di leggerle. Penso, tuttavia, che una passione forte faccia scattare inevitabilmente prima o poi la necessità di studiare, di approfondire ciò che è stato, filtrandolo attraverso le proprie conoscenze ed esperienze; è una cosa inevitabile che aiuta peraltro a rimanere umili, perché indagando la fotografia si scopre quasi sempre, prima o poi, che quello che facciamo è stato già fatto e pensato.
Per mestiere Bruno si occupa di curare i rapporti tra le istituzioni e la Pubblica Amministrazione, con gli Enti pubblici e privati che forniscono servizi alle imprese, promuovendo la partecipazione degli imprenditori a progetti di sviluppo, fiere, manifestazioni, organizzando eventi, convegni e campagne di tutela e valorizzazione dell’artigianato e delle piccole imprese. Diciamo che in qualche modo, indirettamente la Direzione di cui è a capo fornisce supporto normativo e formazione alle imprese.
La fotografia italiana, a dispetto di tante altre realtà europee e mondiali, denota invece la completa assenza di un ente formativo, di un’accademia o scuola nazionale di fotografia che dir si voglia, in grado di formare i nostri professionisti mettendoli in connessione con il mondo del lavoro che andranno ad affrontare, che invece viene sempre più spesso approcciato da dilettanti.
LC: Facendo riferimento a quanto detto e riallacciandomi a queste tue peculiarità professionali ti chiedo: perché secondo te la fotografia italiana non si è mai riuscita a dotare di quelle istituzioni e di quelle dotazioni culturali fondamentali che invece altri ambiti artistici si sono riusciti a dare?
BP: Questo non succede soltanto nella fotografia in Italia. Ad esempio l’artigianato italiano produce da sempre eccellenze di interesse mondiale, nessuno può dire che in questo settore siamo inferiori ad altre realtà internazionali, ma questo risultato viene determinato nonostante non ci siano solide istituzioni formative nazionali come invece ne esistono in altre realtà.
Noi non abbiamo la cultura delle istituzioni nazionali dei francesi o il pragmatismo organizzativo dei tedeschi; siamo estemporanei e abbiamo una innata tendenza a non “fare sistema”. Questa non è una caratteristica necessariamente negativa, perché mette in evidenza la nostra spiccata creatività; Non sarei così pessimista.
LC: Qualche settimana fa ho partecipato con interesse alla presentazione della mostra di cui sei stato curatore insieme a Giorgio Rossi “Uno Sguardo sul nostro Paesaggio“, realizzata dai fotografi dell’Associazione Semplicemente Fotografare; la mostra, allestita in collaborazione con il Foto Club Castelli Romani del presidente Mariano Fanini e stata ospitata nell’occasione dal Museo Civico “Mario Antonacci” di Albano Laziale. A latere hai presentato un progetto fotografico molto interessante che stai portando avanti, “Around shopping malls”, puoi parlarcene? Come nasce? Quale obiettivo si pone? Quale tipo di studio e preparazione ha comportato la sua realizzazione?
BP: “Around shopping malls” è un’idea nata qualche tempo fa. Andavo in un grande centro commerciale romano ed avevo deciso di farlo usando i mezzi pubblici, non prendendo la macchina come al solito. Questo mi ha consentito di osservare con estrema cura il territorio circostante, quello cioè che stava “intorno” al centro commerciale, questo mi ha fatto pensare che fosse una buona idea costruirci un progetto fotografico.
Mi sono quindi accorto che sarebbe stato molto interessate approcciare il mio lavoro di documentazione leggendo il rapporto di quei luoghi con il territorio circostante, per capire quale dimensione relazionale si fosse sviluppata tra di essi. Siamo infatti abituati a fruire i centri commerciali nell’ottica del consumo: prendiamo la macchina, la parcheggiamo negli appositi spazi e ci tuffiamo dentro incuranti del resto; entriamo e vediamo quasi sempre la stessa cosa: un format globale sempre uguale nel quale ritroviamo sempre le stesse cose. Io ho voluto guardare altrove.
È quindi un progetto che ha dietro un grande lavoro di approfondimento e una capillare consultazione di Google Maps, per capire come arrivare con i mezzi pubblici, spesso non senza difficoltà, come costruire il percorso di indagine e soltanto dopo essermi fatto una idea piuttosto precisa del luogo, uscire a fotografare. La serialità del progetto mi ha anche consentito di capire che, se è vero che i centri commerciali sono tutti uguali al loro interno, sono invece completamente diversi rispetto a tutto ciò che gli sta intorno, rappresentano un modo poliforme di costruire le nuove centralità urbane.
Nel discorso di presentazione, Bruno ha usato un termine che mi ha molto colpito e fatto riflettere: in riferimento ai luoghi protagonisti del suo progetto, li ha definiti Superluoghi. Mi è subito venuto alla mente l’antropologo e filosofo francese Marc Augè, che ha coniato il neologismo “nonluoghi” proprio riferendosi a quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi secondo lui sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce, autostrade, stazioni, aeroporti, sia i mezzi stessi di trasporto come automobili, treni, aerei.
Sono nonluoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie. Il nonluogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito. Nel proporci una antropologia della surmodernità, Augé ci introduce quindi ad una etnologia della solitudine.
LC: Qual è dunque essenzialmente la differenza tra le due definizioni?
BP: Per molto tempo siamo rimasti affezionati alla dimensione del nonluogo per come lo ha definito Marc Augé: un luogo privo della capacità di costruire una dimensione stabile delle relazioni, nel quale esercitare soltanto la nostra dimensione consumeristica. Ho scoperto la definizione del superluogo leggendo un bel libro di Federico Castigliano, Flaneur, e ci ho ritrovato dentro la mia stessa idea: “Contrariamente ai non-luoghi, essi rivendicano una forte identità e una capacità d’attrazione: si distinguono come landmarks che dominano il territorio in cui sono inseriti, determinando, allo stesso tempo, una frattura rispetto alla città storica. Il prefisso super mette l’accento sulla loro funzione polivalente, e al contempo li oppone ai non-luoghi: piuttosto che zone d’ombra nel panorama cittadino, si sono affermati come icone di una nuova centralità.”
LC: Ho trovato molto interessante questo spunto di riflessione che ci offri. Puoi spiegarci meglio la tua definizione di superluoghi mettendola in relazione invece al pensiero di Augè?
BP: Partendo da quella lettura, ho cominciato a documentarmi sui superluoghi, scoprendo che ormai c’è una ricca letteratura in materia. Così mi sono messo sulle tracce di questa definizione e ho cominciato a costruire il progetto. Quindi, l’evoluzione quasi naturale della definizione eterea di Augé si è trasformata col tempo nella capacità di definire e costruire una nuova dimensione della relazionalità espressa dai superluoghi: “Questi non sono edifici con un carattere univoco, in cui ci si reca per acquistare, oggetti, servizi, esperienze, ma polarità localizzate nei nodi infrastrutturali dove si concentrano i flussi di persone che interpretano nei diversi momenti della giornata il ruolo di viaggiatori, utenti e consumatori. A livello locale essi si configurano come possibili centralità, in cui spazi di relazione connettono diverse funzioni urbane.” (Mario Piras – Urbanistica dei superluoghi, Maggioli)
LC: Ecco appunto, i nodi infrastrutturali, passiamo allora ad un altro tuo lavoro che mi ha molto colpito per il suo concept, “Nodi intermodali”. Puoi dirci anche in questo caso come nasce, che lavoro c’è dietro e qual è il messaggio che veicola?
BP: “Nodi intermodali” è costruito con la stessa filosofia di indagine del territorio e del paesaggio urbano. I nodi intermodali sono terminali di scambio tra trasporto urbano, trasporto interurbano e trasporto metropolitano e/o ferroviario. Sono posti in cui si concentrano grossi flussi di persone nei quali osservare la stessa evoluzione da nonluogo a superluogo di cui abbiamo parlato.
I nodi intermodali sono ormai caratterizzati dall’essere punti di riferimento, familiarmente conosciuti per nome ad esempio a Roma ci sono Ponte Mammolo, Laurentina, Grotte Celoni, in cui le persone si ritrovano certamente fruitori della dimensione funzionale del luogo, ma anche di una nuova relazionalità policentrica, nel mercatino, nel bar di riferimento, ai tornelli della metropolitana: “queste nuove pratiche di scambio sociale, economico e culturale, tra le moltitudini che vivono e frequentano i superluoghi, si manifestano con le stesse modalità e con le medesime intensità con cui tradizionalmente il cittadino abita lo spazio pubblico della sua città, con la differenza che ad essere sovvertito è il concetto di prossimità” (AA.VV. – Le civiltà dei superluoghi, Damiani).
LC: Per finire, si percepisce nel tuo lavoro e nelle tue parole molta passione per ciò che fai, cosa ti sentiresti di suggerire a coloro che inesperti vogliano approcciare la fotografia? Cosa ti ha insegnato la tua esperienza?
BP: Fotografare e guardare fotografie, cercando di sviluppare la necessaria curiosità dell’approfondimento, non abbandonandosi mai all’idea che la “tecnica” è una cosa inutile. La fotografia è un linguaggio con le sue regole e non c’è fotografia, se non quella di cui si comprende il funzionamento. Tutto il resto viene, appunto, con lo sviluppo della passione, cosa non affatto semplice.
LC: Grazie Bruno per questa interessantissima chiacchierata, che sono certo avrà affascinato i nostri tantissimi lettori. A me non resta che augurarti il meglio per il tuo futuro lavorativo e personale. Ciao.
BP: Grazie a te Gigi per quest’opportunità che mi ha permesso di esprimere alcuni concetti a me molto cari e far conoscere i miei lavori fotografici, un saluto a tutti i lettori di ArteViate.
Riferimenti dell’autore
[Ndr]: Tutte le immagini contenute in questo articolo, sono coperte dal diritto d’autore e sono state gentilmente concesse, salvo dove diversamente specificato, da Bruno Panieri © ad ArteVitae per la realizzazione di quest’articolo.
Note biografiche sull’Autore
Gigi, salentino di nascita e romano d’adozione, intraprende il percorso di laurea in Economia Bancaria e successivamente abbraccia la carriera militare. Alterna la passione per l’economia e la letteratura, ereditata dal nonno, a quella per la fotografia che coltiva da tempo, applicandosi in diversi generi fotografici, prima di approdare alla fotografia di architettura e minimalismo urbano in cui trova espressione la sua vena creativa.
Dotato di personalità votata alla concretezza e con uno spiccato orientamento alla cultura del fare, Gigi intuisce le potenzialità aggreganti della fotografia unite alla possibilità di condivisione offerte dal Social e fonda il Gruppo ArchiMinimal Photography attraverso il quale riesce a catalizzare l’attenzione di tanti utenti italiani e stranieri attorno ad progetto di più ampio respiro che aggrega una nutrita comunità attiva di foto-amatori. Impegnato nella promozione e nella divulgazione della cultura fotografica, crea il magazine ArteVitae, progetto editoriale derivato dal successo della community social, per il quale scrive monografie ed approfondimenti sugli autori fotografici e cura la rubrica Digressioni sulla Fotografia, ricercando nel panorama fotografico contemporaneo, personaggi e spunti di interesse di cui parlare.