5 Giugno 2019 By Valentina Fenu

Allahabad dagli occhi di Alice, Anna e Agata

Allahabad è la meta protagonista oggi della rubrica “Sì, viaggiare” curata da Valentina Fenu per ArteVitae. Niente gite tropicali o strane congetture filosofiche. Questa affascinante e mistica città è una delle tappe dei viaggi onirici del libro “Due di uno” della medesima autrice.

L’afa umida creava una condensa spessa sulle finestrelle delle abitazioni tutte uguali poste al bordo delle strade, o forse erano proprio gli edifici modesti che creavano un’idea di via, tanto erano fitti, modulari e identici.
Sicuramente Allahabad era un luogo speciale, non certo perché eccellesse in stili architettonici o ingegnosità particolari; fatta eccezione per l’università – orgogliosamente definita la Oxford dell’est
– il resto era piuttosto piatto.
Non mancavano spazi verdi e giardini pubblici, ma la cosa veramente importante di quel posto era l’aria.
Proprio così, l’aria.
Non per l’odore, non per la temperatura ma per una sacralità che si toccava col naso, la bocca, le orecchie, le mani e ogni cellula del corpo. E dell’anima.

Sin dai tempi della scuola, Anna e Alice conoscevano a memoria la fama di Allahabad di essere una città magica: sorgendo sul confluire di tre fiumi sacri, Ganges e Yamuna ben visibili nel loro flusso e Saraswati presente nel mito, possedeva una sorta di incanto tra cielo e terra, sulle acque.

Ma era solo con il trascorrere del tempo che avevano potuto vivere e respirare quella sensazione di essere i prescelti dagli Dèi.
L’ultima volta che ebbe luogo il Maha Kumbh Mela, erano troppo piccole per ricordarne la magnificenza ma adesso era diverso, erano sempre loro
Alice e Anna
Anna ed Alice,
ed erano pronte a divenire parte di quel rito – il rito dei riti – che avrebbe lavato la loro anima fino al
punto più profondo.
Si diressero passo a passo verso l’Holy Sangam loco dove i fiumi sublimi dell’Induismo si incrociano; a dire il vero ci andarono per forza d’inerzia, poiché la folla di persone – milioni, nel senso puro del termine: non vi era cerimonia più sentita e frequentata come questa nel mondo hindu, sia per la cadenza dodecennale sia per il potere purificatorio che si estendeva per
generazioni, da nonno a nipote – era così massiccia da non consentire libere azioni.
Non si pensava nemmeno: si procedeva, e basta.
A guardare bene i rii sacri parevano quattro ora, il cui quarto era appunto quello di tutti quegli esseri
in cerca di espiazione; valicarono un ponte e lo spettacolo era qualcosa di unico, simile ad un gigantesco serpente buono che con i suoi colori allietava la linearità del territorio: bambini, donne, giovani e anziani in azzurro, bianco, verde, rosa, rosso e quante altre sfumature ancora, tutti in onore di Brahma, Vishnu e Shiva – il creatore, il protettore e il distruttore – che con la più gioiosa preghiera possibile ampliavano la consueta aura magica di emozione, spiritualità e semplicità come se fossero anch’essi delle divinità.
E forse lo furono davvero.

– “Ricordi la leggenda che ci narró la signorina inglese prima di lasciare l’insegnamento per dedicarsi all’arte sacra?”
– “Certo, amavo quella donna e assieme quella storia che mi fece sentire per la prima volta parte di ogni cosa e mi aprì gli occhi sulla voglia di scoprire sì il mondo, ma sempre attraverso il mio io”.
Il racconto indù parlava degli uomini che possedevano una propria divinità ma ne usurparono l’attitudine, così Brahma decise di nasconderla; dopo che alcuni dèi minori gli suggerirono di celarla
nei luoghi più insoliti, egli la portò nel profondo di ogni persona, così che certamente sarebbe stata l’ultima spiaggia dove cercare. Da allora l’uomo, infatti, si adoperò nelle più mirabolanti imprese per trovare qualcosa che era dentro di sé.
La leggenda aveva segnato un capitolo importante nella vita di Anna e imprescindibilmente anche
di Alice,
due di uno,
poiché le spinse a guardare e scavare con l’anima nel cuore del creato – a quest’ultima veniva particolarmente bene di chiudere gli occhi e riuscire comunque a percepire nitidamente fuori, come se tutto si materializzasse con la sua sensibilità, in Francia ad esempio, o in ogni dove – e vivere
così mille esistenze in una.
Intanto la moltitudine giunse sulle sponde e il rito cominciò secondo una gerarchia: dapprima qualche centinaio di sadhu, gli asceti nudi, si immersero nel fiume coperti di cenere e con una
ghirlanda di fiori al collo, poi un enorme stuolo di guru su troni d’argento sì appropinquò e infine la massa, quel popolo immenso di coscienze macchiate dal peccato che volevano assicurarsi un buon candeggio.
– “Ma quanta umanità esiste tutta qui, in questo luogo?”
– “Saranno milioni e milioni, non esiste angolo libero”
– “Non ti ricordano le onde del mare?”
– “Sì hai ragione Anna: la costanza dei gruppi che entrano ed escono crea un moto simile all’andirivieni della riva”.
E nel bel mezzo del frastuono e delle considerazioni, videro lei.
Lei.
Agata, la guru deva.
Splendidamente seduta, la pelle preziosamente decorata ed in mano un tridente. E gli occhi più
profondi di quel dentro in cui Brahma aveva nascosto la divinità umana.
Era eterea nella sua sacralità umana, e avvertirono un balzo al cuore;
come se le avesse spogliate di qualsiasi limite o freno e le avesse riportate o meglio, portate alla Vita, lì.
In quel momento.
Nell’occhio di tutta quella messe, Agata le aveva puntate dritte dritte
proprio loro,
e le aveva fatte nascere.
La purificazione completò il miracolo;
Alice e Anna,
Anna ed Alice
avevano visto il loro vero io grazie ad Agata.
I suoi occhi divennero il simbolo di una fede invadente, e mai troppo, in quel fiume che poi
diveniva mare
e sempre più in là
oceano,
infinito.
Oceano di un’esistenza possibile solo grazie al dono incessante di quella fede che aveva radunato
uomini sacri e plebei,
loro due e Agata, la cui presenza era un faro e una boa e un porto,
e la sicurezza di poter rivoltare la vita come un calzino per goderla tutta appieno.
Agata, la guru deva, che profumava di presenza.
Come se facesse parte anche lei di quella dimensione eterna del loro legame.
Scese dal trono, toccò le spalle di una e una due,
come per spronarle da quel visibilio in cui si erano addentrate,
“Nessuna vita, nessuna, sarebbe tale senza fede. Qui convergono i fiumi sacri agli hindu, proprio in una città, Allahabad, il cui nome riporta ai fratelli musulmani. Perché non vi sono distinzioni nel culto della vita: questa dimensione è la migliore per noi, ma ogni scorcio di umanità ha il diritto di
scrutare la propria immanenza come reputa, purché abbia fede nel creato. Nell’immensa mano sacra che permette al nostro cuore di battere, alla musica di suonare e all’eternità di essere
scoperta. La fede è l’unità di misura della fiducia nella nostra vita stessa. L’amore è fede, un figlio è fede… guardatevi attorno: la calca, il sudore, le gambe stanche, le lacrime. Guardate bene questi
milioni di persone, ascoltatene i battiti e le voci. Sono le più disparate possibili, ma hanno
qualcosa che va oltre ogni differenza”.

La fede.
Era la risposta. Era un altro dono.
La consapevolezza per esserci.
La gratitudine per i miracoli che quotidianamente giungono col sorgere del sole.
La fede per spostare le montagne e comprendere che la vita è l’infinito di possibilità realizzabili.

 

Valentina Fenu – Classe 1985, nata “in quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno” – ma con chiare origini sarde – ama da sempre arte e letteratura. Laureata in scienze della comunicazione, ha collaborato per passione con la webzine Lobodilattice – dopo diversi anni di carta stampata – e quotidianamente cura la sua pagina Facebook in cui parla di letteratura, vita e emozioni. “Due di uno” è il suo primo romanzo pubblicato da Edizioni del Faro nel 2014.

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