A tu per tu con Roberto Rognoni, un viaggio tra la fotografia di teatro e la storia.
Per la rubrica Digressioni sulla fotografia, curata da Luigi Coluccia, in copertina oggi c’è Roberto Rognoni. Nel consueto appuntamento dedicato all’approfondimento dei nostri autori, ne racconteremo la storia e la fotografia.
di Luigi Coluccia
Roberto inizia a fotografare nel 1965 individuando per le sue ricerche, temi e generi fotografici ben precisi e circoscritti quali: la fotografia di teatro, di viaggio, di paesaggio, i reportage di carattere sociale e documentaristico e gli audiovisivi fotografici.
Non ha frequentato scuole di fotografia e si è formato, come microscopista, nel settore tecnico e strumentale dei laboratori di ricerca di una grande società petrolifera nazionale. Il risultato finale di questa attività era la fotografia di grande formato in BN che trattava personalmente con attrezzature di alto profilo. Per quanto riguarda l’apprendimento della storia e del linguaggio della fotografia è autodidatta e si è formato anche in vari seminari e workshop organizzati in ambito amatoriale.
Dopo la laurea in Economia e Commercio, ha cambiato professione e ha continuato l’attività fotografica di sviluppo e stampa in casa fino all’avvento del digitale, quindi per una ventina d’anni. Un’attività che ritiene essere stata fondamentale per la sua preparazione e che gli ha permesso di comprendere le migliori condizioni per l’ottenimento dei risultati attesi.
Difficile sintetizzare il mio percorso fotografico, mi piace affermare di aver maturato la convinzione della necessità di lavorare in gruppo e di cercare sempre il confronto sincero con persone più qualificate, le lodi infatti non servono alla formazione. – RR
LC: Come hai cominciato a fotografare? Da dove deriva questa passione e quale è stato l’evento che ha scatenato in te la voglia di misurarti con questa forma d’espressione artistica?
RR: Per rispondere a questa tua domanda, permettimi di citare un episodio significativo che risale all’inizio del mio percorso teatrale, alla fine degli anni 70. Avevo scelto di misurarmi con la fotografia di teatro per sfidare le avversità tecniche che essa comporta, come la scarsa illuminazione ed il forte contrasto con le pellicole usate di bassa sensibilità, ma anche perché potevo praticarla di sera, dopo il lavoro.
Per le riprese di alcuni spettacoli, mi sono trovato qualche volta insieme al più grande fotografo italiano di teatro, Maurizio Buscarino, che in quelle occasioni fotografava esclusivamente per una ricerca di tipo personale, al di fuori cioè delle importanti committenze professionali che aveva. Insomma in quelle occasioni era un fotoamatore come me! Ho così cercato con lui un confronto circa la bontà del mio approccio a questo genere fotografico, volevo sapere se stavo operando nella giusta direzione.
Successe una cosa che oggi avrebbe dell’incredibile: Buscarino, dimostrando una squisita sensibilità, mi invitò a casa sua per visionare i miei lavori. Il suo atteggiamento, molto positivo nei confronti delle mie fotografie di scena, è stato determinante nel farmi proseguire nell’attività e diventare successivamente il fotografo di scena ufficiale della compagnia milanese “Quelli di Grock” per vent’anni.
L’attività di ricerca in questo settore è durata per circa 40 anni, con circa 400 spettacoli fotografati di varie compagnie italiane e straniere. Parecchie le mostre e pubblicazioni realizzate, culminate nel 2014 con il libro fotografico “Quelli di Grock Story” pubblicato da parte della compagnia.
LC: Cosa rappresenta per te la fotografia?
RR: Confesso: è il grande amore della mia vita, mia moglie lo sa e mi ha perdonato. Mi ha sempre agevolato, incoraggiato ed aiutato, molte volte dandomi anche dei buoni consigli per la ricerca di nuovi soggetti e suggerendomi nuove aree tematiche da approfondire. Non riesco a vedere quello che mi sta attorno senza pensare a come potrei fotografarlo. Con l’avvento del digitale poi si è rinvigorito il “virus” e fotografo in libertà, con più serenità e forse creatività, senza pensare alle conoscenze pregresse. Non nascondo che fotografo anche con il cellulare che permette di essere sempre pronto allo scatto, altrimenti impossibile con altri mezzi di ripresa.
Fondazione Prada – 2015
LC: Nella tua vita ti sei cimentato in tantissimi generi fotografici, hai maturato, cosa non comune, un percorso di ricerca stilistico ed artistico molto articolato, puoi raccontarcelo? Da ultimo, in quali generi fotografici e perché ti sei sentito più a tuo agio e cosa ti ha attratto di essi?
RR: Vero, ti sei preparato bene. All’inizio ho affrontato i soggetti uno alla volta: il teatro, il paesaggio, la documentazione di carattere sociale sul territorio. Questo intenso lavoro di ricerca, mi ha potato a determinare un mio stile, con il quale ho proseguito nello svolgimento dei successivi progetti. Questo è dipeso anche dalla mia capacità di risolvere i problemi tecnici legati alla coppia tempo/diaframma con qualsiasi condizione di illuminazione. Dico sempre che quando hai imparato a fotografare a teatro, in particolare con le compagnie sperimentali che ho frequentato io e con le pellicole in BN, sovra sviluppate e stampate in proprio, puoi fotografare di tutto.
LC: Da quali grandi autori della fotografia o del mondo della pittura hai tratto ispirazione per realizzare i tuoi lavori fotografici?
RR: Sono tantissimi gli autori che ho seguito. Cito a memoria: Ansel Adams, Cartier Bresson, Berengo Gardin, Frank, Koudelka, Basilico, Buscarino. Nel Circolo Fotografico Milanese del quale sono socio dal 1976: Donzelli, Fantozzi, Magni, Cattaneo, Ingrosso, tutti fotoamatori che hanno lasciato un segno soprattutto nel periodo neorealista della fotografia italiana.
Escher mi ha ispirato nel mio ultimo portfolio, realizzato quasi esclusivamente con lo smartphone, sia in ripresa che in post produzione, intitolato “Staircases Metamorphosis”, che esporrò nell’ambito del prossimo Photofestival a Milano. Molti spunti trovo anche nel cinema d’autore, che seguo da sempre con molto interesse, analizzandone in particolare la fotografia e l’utilizzo della musica, utili anche nella realizzazione dei miei audiovisivi fotografici.
C’è stato, da diversi anni a questa parte, un proliferare di istituti, soggetti conservatori, soggetti – agenti politico-culturali, che hanno il compito di gestire il patrimonio fotografico italiano, che non svolgono solo funzioni di trattamento e valorizzazione, ma anche di comunicazione ed ora addirittura di condivisione, che attraverso l’uso dei patrimoni che gestiscono e che pubblicano in rete, insieme alla promozione di iniziative collaterali, vanno spesso alla ricerca della “costruzione di consensi.
LC: Anche tu ti occupi di un archivio storico, qual è a tuo avviso l’importanza del patrimonio fotografico italiano e come si potrebbe migliorare la sua conservazione e valorizzazione ponendola al servizio della fotografia moderna?
RR: Si ho promosso nel 1999, non senza fatica, la costituzione dell’archivio storico fotografico del Comune di San Donato Milanese e dal 2000 ne sono il curatore e siamo già da un po’ di tempo alla ricerca di un giovane che possa affiancarmi per poi proseguire nella curatela. Credo nel primato della fotografia nella conservazione della memoria storica della nostra esistenza e dell’importanza per i giovani, ma non solo, di conoscere il nostro passato.
Incredibile l’interesse che suscitano nei cittadini le mostre e i cataloghi con i quali facciamo periodicamente conoscere le nuove acquisizioni, qualche volta importanti, come una cinquantina di stampe originali di Gabriele Basilico su Metanopoli, la città del metano fondata da Enrico Mattei.
Il nostro è un archivio gestito con mezzi artigianali, non certo con catalogazione omologata a livello nazionale. Tutte le foto sono digitalizzate e gli originali vengono quasi sempre restituiti ai donatori. Siamo arrivati comunque ad avere circa 2000 foto in archivio che riesco ancora a gestire con efficacia. Per avere archivi importanti ed utili per lo studio del passato occorrono grossi investimenti, che i comuni non possono fare, e spazi e personale dedicati. L’archivio italiano più noto, quello dei Fratelli Alinari a Firenze è la testimonianza di quanto sia difficile mantenere oggi un patrimonio iconografico di grandi dimensioni.
Sempre legate a San Donato Milanese, mi piace ricordare le importanti mostre e le pubblicazioni che negli anni 80 Roberto ha dedicato agli anziani della città, lavori di gruppo da lui coordinati nell’ambito del Circolo Culturale “Giacomo Leopardi”.
LC: E’ un fatto, penso si possa dire così, che a partire dagli anni ’90, ci sia stato uno scollamento fra chi faceva fotografia e chi invece aveva fatto la storia della fotografia, una frattura. Un fenomeno che non si era mai verificato prima. E’ come se la fotografia moderna e chi l’ha praticata, non sentisse più il bisogno di guardare a chi c’era stato prima, di confrontarsi con il passato. Come hai visto cambiare quindi il mondo della fotografia e dei fotografi negli ultimi trent’anni? Ti senti rappresentato nella fotografia moderna e nei fotografi di oggi?
RR: Una domanda complessa alla quale posso rispondere solo parzialmente, frequentando quasi esclusivamente il mondo della fotografia non professionale.
I giovani che non fanno scuole di fotografia certificate vengono al circolo fotografico soprattutto per imparare la tecnica, quindi fanno il corso base e non tutti il corso di approfondimento che dovrebbe comprendere lo studio della storia e del linguaggio della fotografia. Così, in genere, pensano di essere già pronti per entrare nel mondo professionale, e abbandonano la frequentazione del circolo.
Questo fatto può essere anche positivo se si considera che le capacità intrinseche di alcuni soggetti possono svilupparsi in un processo creativo non condizionato dagli schemi consolidati dei grandi autori del passato, avendo così la possibilità di avere un impatto sulla “nuova” fotografia che vediamo esposta nelle gallerie d’arte.
Difficile per me “leggere” questi nuovi autori che si rivelano con nuove forme di comunicazione, fuori dalla mia pratica. Quindi per la mia generazione è importante lo studio di queste nuove forme di espressione, contaminate dalle possibilità delle tecnologie multimediali. Non voglio dire che poi si debba arrivare a praticarli, ma la conoscenza e la sperimentazione possono portare anche a sviluppi positivi nella fotografia tradizionale. Per concludere non mi sento rappresentato dalla fotografia “moderna”, ma mi sforzo di capirla anche per trarre nuovi spunti per la mia fotografia.
LC: Oggi si predilige moltissimo la fotografia d’impatto, quella che colpisce per la sua potenza scenica, spesso però a scapito della qualità e della quantità dei contenuti che veicola. La perfezione e la precisione di ogni dettaglio, che spesso tolgono quella poesia caratterizzante le fotografie della seconda metà del ‘900, che avevano quel fascino retrò ricco di realistiche imperfezioni. Ritieni che questo mutamento sia semplicemente il sintomo inequivocabile di quella crisi identitaria che caratterizza le moderne società o ritieni sia piuttosto un nuovo linguaggio formale semplicemente diverso da quello utilizzato nel passato? In quale dei due ti ritrovi di più? Come sei riuscito a rimanere te stesso pur seguendo ed adattandoti alla modernità della fotografia?
RR: Quello che dici è per me vero nel mondo dei concorsi dove le giurie devono analizzare e scegliere in poco tempo tra migliaia di fotografie. E’ chiaro che la fotografia d’impatto è letta con maggiore rapidità e questo valeva anche nella fotografia analogica. Oggi può succedere che i reporter di guerra, in certi casi, per emergere in questi concorsi, creino dei veri e propri set fotografici in prima linea, forzando le situazioni a beneficio della sensazionalità, sia in ripresa che in post produzione.
Nel caso invece di ricerche personali e più articolate le scelte possono essere diverse e la rappresentazione usata è legata alla necessità di apparire con uno stile che caratterizzi l’autore in modo significativo. Aggiungo che la perfezione e precisione della fotografia attuale è anche connessa al mezzo digitale dove la qualità della riproduzione della realtà è nettamente superiore a quella della fotografia analogica e persino della risoluzione degli obiettivi. La prova di quanto affermo è che i programmi di post produzione prevedono l’utilizzo di filtri che introducono artificiosamente l’effetto della grana delle pellicole, appunto per diminuire la nitidezza del digitale.
Io mi ritengo un “artigiano” fotografo dell’era analogica completamente convertito al digitale, che, particolarmente in campo teatrale, ha migliorato la mia capacità di cogliere momenti che in passato vedevo senza poterli registrare. Nel modo di fotografare sono rimasto lo stesso. Il fotografo deve soprattutto “vedere” e partecipare e far partecipare alla realtà che osserva e quindi il mezzo non ha importanza e nel caso del digitale ritengo che abbia portato ad una semplificazione nel fotografare consentendoci di concentrarci sul soggetto. L’aspetto negativo è che tutti si sentono fotografi provetti e siamo sommersi nei social, ma non solo, da fotografie prive di cultura fotografica. Comunque esistono su Facebook gruppi come Archiminimal che vanno lodevolmente controcorrente.
LC: Nella tua attività fotografica condivisa con tutti noi nel gruppo Facebook “ArchiMinimal Photography”, ti sei cimentato con grande successo nella fotografia d’architettura urbana e minimalista. Qual’è il tuo rapporto con l’architettura urbana e come è cambiata questa nel tempo? Vivi in una bellissima cittadina confinante con Milano, come hai visto cambiare le periferie milanesi in tutti questi anni e come hai pensato di documentare questi cambiamenti?
RR: Basilico è il mio punto di riferimento per la fotografia di architettura. Nel periodo analogico mi sono dedicato poco a questo soggetto perché tarpato dalla necessità di avere un obiettivo decentrabile. Così il digitale mi ha permesso anche di entrare in questo nuovo soggetto. Mi interessa documentare i cambiamenti urbanistici, in particolare della mia città, per alimentare l’archivio storico fotografico.
San Donato è una città piccola ed è facile avere tutto sotto controllo. Più difficile per Milano che ha avuto in questi ultimi anni uno sviluppo rapidissimo, impossibile da documentare nella sua complessità da un solo fotografo. Così,in questo caso, cerco di interpretarne alcuni aspetti ed aver conosciuto Archiminimal mi ha stimolato a finalizzare la mia ricerca dal punto di vista stilistico e pubblicare le mie foto senza al momento pensare ad un progetto organico.
LC: Di quali strumenti ti avvali, tipo di macchina fotografica, obiettivi, post produzione ecc.?
RR: Avrai capito dalle precedenti risposte che non sono molto interessato alla strumentazione di ripresa, non sono un patito dei milioni di pixel e dell’ultimo modello di reflex, pur tenendomi aggiornato sugli sviluppi del mercato. Ritengo necessario conoscere a fondo le caratteristiche della propria attrezzatura in modo da poterla utilizzare con affidabilità di risultati nelle varie situazioni.
Per ogni soggetto utilizzo quasi sempre la stessa fotocamera e gli stessi obiettivi. Per il teatro uso reflex full frame con obiettivo zoom 80/200 o 28/300 e monopiede; per le foto di reportage un’attrezzatura leggera quindi reflex APS con zoom 18/200; per le foto di street e osservazione urbana una mirrorless con zoom 18/55 e 50/200, ma anche lo smartphone. Per la post produzione, che non deve mai prendere il sopravvento sull’originale, uso gli universali Photoshop e Lightroom, integrati per il BN dal filtro NIK Silver Effects.
LC: Hai nel breve periodo dei progetti fotografici di cui ti stai occupando o che vorresti mettere a punto?
RR: Un progetto di documentazione sul volontariato sociale per disabili è nella fase finale, in attesa delle liberatorie per la privacy. Per un paio di audiovisivi ho già il materiale necessario e attendo sempre di avere il tempo di mettermi al lavoro. La realizzazione di un AV richiede infatti una dedizione quasi esclusiva per periodi di qualche mese. Un altro progetto aperto da tempo è quello di realizzare una super selezione delle foto di scena realizzate in 40 anni di attività per circa 400 spettacoli. Come puoi immaginare un’impresa ciclopica, chissà se riuscirò mai a completarla per una mostra con catalogo!
LC: Per finire, si percepisce nel tuo lavoro e nelle tue parole molta passione per ciò che fai, cosa ti sentiresti di suggerire a coloro che inesperti vogliano approcciare la fotografia? Cosa ti ha insegnato la tua esperienza?
RR: Ritengo indispensabile la conoscenza della storia della fotografia attraverso lo studio dell’opera dei grandi fotografi del passato e di quelli attuali attraverso la visione di mostre e libri fotografici e una solida preparazione tecnica che consenta di essere dimenticata al momento dello scatto, quando il fotografo deve solo pensare a quello che vede nel mirino.
Infine la necessità di uscire dalla visione personale e cercare il confronto con altre persone che possano analizzare con attenzione il tuo lavoro per verificare che il tuo messaggio arrivi all’osservatore come lo avevi pensato, con la modestia di capire gli eventuali errori evidenziati e di correggere le proprie convinzioni. Ricordiamo sempre il significato della parola fotografia e non diamo troppa importanza ai “likes” dei social!
LC: Roberto, non mi resta allora che salutarti e ringraziarti per questa opportunità che mi hai concesso. Ho apprezzato moltissimo alcuni passaggi di questa intensa chiacchierata, sono certo che i nostri lettori resteranno affascinati dalla tua fotografia, dal tuo pensiero e dalla tua storia. Grazie quindi per la tua disponibilità, e in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.
RR: Grazie a voi, davvero, un saluto ed un ringraziamento a tutti gli amici di ArteVitae.
Riferimenti dell’autore
[Ndr]: Tutte le immagini contenute in questo articolo, sono coperte dal diritto d’autore e sono state gentilmente concesse, salvo dove diversamente specificato, da Roberto Rognoni © ad ArteVitae per la realizzazione di quest’articolo.
Note biografiche sull’Autore
Gigi, salentino di nascita e romano d’adozione, intraprende il percorso di laurea in Economia Bancaria e successivamente abbraccia la carriera militare. Alterna la passione per l’economia e la letteratura, ereditata dal nonno, a quella per la fotografia che coltiva da tempo, applicandosi in diversi generi fotografici, prima di approdare alla fotografia di architettura e minimalismo urbano in cui trova espressione la sua vena creativa.
Dotato di personalità votata alla concretezza e con uno spiccato orientamento alla cultura del fare, Gigi intuisce le potenzialità aggreganti della fotografia unite alla possibilità di condivisione offerte dal Social e fonda il Gruppo ArchiMinimal Photography attraverso il quale riesce a catalizzare l’attenzione di tanti utenti italiani e stranieri attorno ad progetto di più ampio respiro che aggrega una nutrita comunità attiva di foto-amatori. Impegnato nella promozione e nella divulgazione della cultura fotografica, crea il magazine ArteVitae, progetto editoriale derivato dal successo della community social, per il quale scrive monografie ed approfondimenti sugli autori fotografici e cura la rubrica Digressioni sulla Fotografia, ricercando nel panorama fotografico contemporaneo, personaggi e spunti di interesse di cui parlare.